Caso unico, con il placet del Maggior Consiglio un’osella del doge Morosini ritrae “il Peloponnesiaco” con fattezze reali e fra i simboli delle sue vittorie
di Roberto Ganganelli | Quanto la Serenissima Repubblica di Venezia, nella sua storia plurisecolare, sia stata accorta nel far sì che il proprio supremo magistrato, il doge, non superasse mai i limiti di potere e di immagine imposti dal suo ruolo è ben noto.
Anche la numismatica ci ricorda ciò: basti pensare alla celebre lira Tron battuta dall’omonimo doge Nicolò fra il 1471 e il 1473 col proprio ritratto. Quella prima lira “reale”, infatti, non piacque affatto per il mezzobusto del doge vivente ritratto con sembianze ben definite, non certo idealizzato come, ad esempio, nei ducati in oro che da secoli circolavano nel bacino del Mediterraneo simboleggiando la potenza di Venezia.
C’è tuttavia un altro caso in cui a un personaggio ancora in vita la monetazione di Venezia tributò un omaggio anche se, stavolta, per delibera stessa del Maggior Consiglio e in modo, per così dire, indiretto, “trasversale”.
Si approssimava infatti la fine del XVII secolo, per l’esattezza era l’anno 1691 quando dalla zecca nei pressi di Piazza San Marco uscirono delle oselle in oro e in argento davvero uniche, tutte incentrate sul doge in carica, quel Francesco Morosini che per le sue impressionanti vittorie era stato ribattezzato “il Peloponnesiaco”.
Nato nel 1609, eletto alla carica dogale nel 1688, il Morosini era stato nominato per ben quattro volte “capitano generale da mar” e nelle guerre di Candia e di Morea si era distinto per l’ardimento delle sue strategie che avevano permesso a Venezia di trionfare sull’Impero ottomano mantenendo un controllo, sebbene non più egemonico, sul Mediterraneo orientale.
L’appellativo di “Peloponnesiaco” si deve alla fulminante serie di conquiste che nel 1684 lo vide prendere l’isola di Santa Maura, nel 1685 occupò Corone e la Maina, nel 1686 Navarino, Modone, Argo, Nauplia. L’anno seguente completò quindi la conquista del Peloponneso, poi si impadronì di Patrasso di Lepanto e di Corinto puntando su Atene.
L’assedio alla capitale ellenica non fu tuttavia fortunato nonostante, verso la fine di settembre del 1687, il cannoneggiamento ordinato dal Morosini riuscì a colpire la polveriera ottomana che si trovava dentro il Partenone, che venne in parte distrutto. Per inciso, fu in quell’occasione che crollò il tetto del tempio che, dalla sua costruzione nel V secolo a.C. e fino ad allora, era rimasto miracolosamente intatto.
Sta di fatto che già l’11 agosto 1687, per i meriti ottenuti sul campo di battaglia, Francesco Morosini era stato onorato da un monumento in bronzo voluto Senato veneziano (unico nella storia della Repubblica di Venezia a ottenere tale onore mentre era ancora vivo), posto all’interno dell’armeria del Consiglio dei Dieci a Palazzo Ducale, e del titolo di “Peloponnesiaco”. L’iscrizione sotto al busto – opera dello scultore genovese Filippo Parodi e di cui una copia in marmo è a Museo Correr – riporta: “Il Senato a Francesco Morosini, il Peloponnesiaco, ancora in vita” (FRANCISCO MAUROCENO PELOPONESIACO, ADHUC VIVENTI SENATUS).
Cinti l’ermellino e il corno dogale il 3 aprile del 1688 il Morosini iniziò l’ultima fase della sua vita, coronamento di decenni al servizio della Serenissima e quella sua certa tendenza alla vanità – riconosciuta sia dalle cronache dell’epoca che dagli studiosi – ebbe dunque un altro tributo nell’osella del 1691 sulla quale si vide effigiato proprio attraverso le fattezze del monumento che il Maggior Consiglio gli aveva fatto erigere.
In vesti di ammiraglio, su un basamento decorato da piani di guerra e dal suo stemma, su una base istoriata da trofei militari, Morosini tiene in mano il bastone simbolo del comando marittimo supremo ed è circondato dalla legenda MAVROC PELOPONESIACO VIVENTI S C (“A MOROSINI, IL PELOPONNESIACO, VIVENTE, PER DELIBERA DEL SENATO”).
Tutte le sue oselle, del resto, furono fortemente auto celebrative, ad esempio quella dell’anno III che celebra lo stocco pontificio concessogli da papa Alessandro VIII nel 1689 o quella dell’anno VI con i quattro berretti e i bastoni da “capitano generale da mar” sormontati dal corno dogale. Ma, c’è da scommetterci, quel finire ritratto a tutti gli effetti sull’osella del 1691 – sebbene “in miniatura” e per tramite del monumento del Parodi – dovette solleticare non poco l’ego del Peloponnesiaco, all’apice della sua gloria.
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