di Roberto Ganganelli | Alla fine degli anni Trenta Jean Paul Sartre affida al protagonista de La nausea, il disilluso Antoine Roquetin, un’amara riflessione sul modo di vivere della borghesia: “Sono invecchiati in un altro modo. Vivono in mezzo alle cose ereditate, ai regali, ed ogni mobile per loro è un ricordo. Pendole, medaglie, ritratti, conchiglie, fermacarte, paraventi, scialli. Hanno armadi pieni di bottiglie, di stoffe, di vecchi vestiti, di giornali, hanno conservato tutto. Il passato è un lusso da proprietari”.
Una frase esemplare, autentica micro sintesi sociologica che soltanto un grande del pensiero avrebbe potuto imbastire; righe che evocano un mondo e una cultura in disfacimento da cui Roquetin si sente sempre più esule e distante; una realtà nella quale gli oggetti, al pari degli uomini, definiscono un contesto individuale e sociale dove è quasi impossibile trovare valori e significati e, ad essi, aderire.
Il capolavoro di Sartre viene dato alle stampe nel 1938; cinque secoli prima Pisanello modella e fonde quella che, dedicata a Giovanni VIII Paeologo, è considerata la prima medaglia d’arte della storia. Fa riflettere, dunque, come fra gli oggetti quotidiani accumulati con lo scorrere del tempo e ormai privi di ogni residuo valore funzionale (bottiglie, vecchi vestiti, giornali, così evocativi di polvere e di morte) il letterato e filosofo francese menzioni anche le medaglie, non a caso ma perché ritenute una delle categorie stesse della futile materialità della vita e della società moderna e in cui grazie quei tondelli riesce l’individuo percepisce – forse, e magari solo vagamente – la grandezza della storia e gli uomini che lo hanno preceduto.
Per nostra fortuna, sia nei cinque secoli prima della pubblicazione de La nausea che nei decenni trascorsi da quel 1938, la medaglia è stata ben più che un semplice oggetto o, tanto meno, una inutile reliquia: “Genere artistico autonomo – scrive Silvana Balbi de Caro -, frutto originale del nostro Rinascimento, sbocco naturale di un processo mentale”, la medaglistica ha infatti costituito, grazie all’affinarsi delle tecniche e al cimentarsi di grandi creativi, un formidabile veicolo di diffusione dell’arte, della storia, di messaggi politici e religiosi, un mezzo per esaltare simboli, valori e disvalori, premiare meriti e celebrare eventi. Una sorta, insomma, di maestosa e complessa “cronaca metallica” dell’evoluzione umana, non soltanto per quanto riguarda l’Occidente.
Grandi sovrani e uomini di potere – dai Gonzaga ai dogi, dai Savoia ai romani pontefici, solo per limitarci alla penisola italiana – hanno visto nella medaglia uno strumento e un modo formidabili per rendere eterne e visibili le loro gesta e, per farlo, si sono affidati ai migliori creativi delle rispettive epoche: da Pisanello, appunto, a Sperandio e Leone Leoni o Benvenuto Cellini, dagli Hamerani ai vari Fabris, Speranza, Boninsegna e Romagnoli.
Con il Novecento, e specie con il secondo dopoguerra, la medaglia ha compiuto poi un ulteriore passo in avanti in quanto grandi artisti, svincolandone la creazione da committenze ufficiali o imponendo la propria visione dell’arte ai committenti medesimi, ne hanno fatto un mezzo espressivo ancora più libero, personale e aperto alle sperimentazioni. Così la medaglia è riuscita ad incarnare in modo finalmente completo quel concetto di “arte moltiplicata” che pure, da sempre, le era stato attribuito.
Ben diversa, infatti, è la coniazione voluta da un sovrano o da un pontefice a celebrazione di un evento importante – “costretta”, come il suo creatore, dai vincoli della committenza e del messaggio – dalla medaglia che si pone nei confronti del pubblico come autentica, autonoma “scultura metallica in sedicesimo”, microcosmo creativo ed opera compiuta e libera con cui l’autore esprime la propria poetica e il proprio approccio alla materia provocando il pubblico, lasciando che sensibilità differenti portino a letture e visioni diverse dell’oggetto.
Ancora in tempi recenti e nel presente – come testimoniano fra le altre le numerose e affascinanti medaglie di maestri come Manzù e Annigoni, Greco e Grilli, Pomodoro e Veroi – la medaglia ha saputo mantenere il proprio ruolo di forma d’arte e di originale mezzo espressivo, in grado di svolgere un ruolo ben definito nello scenario culturale e sociale.
Certo, la canonica forma circolare e la composizione esclusivamente metallica hanno talvolta ceduto il posto a geometrie e profili diversi, o alla multi materialità, come del resto le raffigurazioni “al vero” hanno risentito in modo sempre più marcato degli stili personali degli artisti o si sono completamente dissolte nei canoni e negli stimoli delle avanguardie. Ma tutto ciò si è rivelato estremamente positivo, poiché la medaglia d’arte è riuscita ad intercettare e coinvolgere, nel secondo Novecento, un pubblico impensabile nei secoli scorsi, quando il suo “impiego” era limitato alle corti, alle aristocrazie e agli ambiti economicamente e culturalmente dominanti.
Negli ultimissimi decenni, infine, si è assistito da una progressiva involuzione dovuta in gran parte ai mezzi di comunicazione globale e allo sviluppo di quella “società liquida” teorizzata da Zygmunt Bauman. Un mondo nel quale la rapidità dei cambiamenti, la disgregazione di modelli sociali antichi e di equilibri geopolitici hanno portato anche ad un diverso approccio del pubblico nei confronti dell’arte, e degli artisti con le rispettive discipline.
In questo la medaglia d’arte, piuttosto che soccombere come alcuni si aspettavano fino a qualche anno fa, pur muovendosi in un ambito meno esteso che nel passato ha continuato e continua ad avere sia “attori” di assoluto livello (artisti a tutto tondo e modellatori-incisori specializzati) che “spettatori attenti”, attratti dall’ancestrale fascino e dal potere emozionale di quei microcosmi metallici che, da quasi sei secoli, accompagnano il cammino dell’uomo. Così la celliniana “arte del picciol cerchio” rinasce, eterna fenice, per consegnarci nuovi, piccoli capolavori destinati a diventare frammenti d’eternità.