di Roberto Ganganelli | Si protrae per ben quindici anni, dal 1684 al 1699, quella che la storia ricorda come Guerra di Morea, di fato l’ultima avventura espansionistica della Serenissima Repubblica di Venezia alla riconquista degli antichi possedimenti in Dalmazia e in Grecia. Le campagne del Peloponneso condotte nell’ultimo scorcio del XVII secolo, vittoria dopo vittoria, alimentano l’esaltazione e la curiosità dei Veneziani per la guerra dando origine anche a forme di vera e propria isteria collettiva, le cui più note espressioni sono le grandi feste barocche e le apoteosi – in vita e in morte – del generale, doge ed eroe Francesco Morosini.
Una sorta di “canto del cigno” della Repubblica che vive, nel 1690, un momento particolare. Dal 6 ottobre 1689, infatti, sul soglio di Pietro siede un papa veneziano, quel Pietro Vito Ottoboni che, all’elezione, ha scelto il nome di Alessandro VIII. Questi sostiene la campagna militare della Repubblica di Venezia contro l’Impero ottomano, sia in concreto – donando viveri per riempire sette cambuse, inviando duemila fanti per la campagna in Albania (lo Scilla parla di quattromila) e sette galee per le operazioni navali – che simbolico, donando nel 1689 lo stocco pontificio e il berrettone al doge Francesco Morosini.
Questi non manca di celebrare le onorificenze papali – una spada consacrata e una berretta, doni che i pontefici usavano fare solo ai principi che si erano distinti a favore della Chiesa – con una osella che recita NON ALIA FRVITVR VICTORIA LAVDE (“Il vittorioso non gioisce di altra lode”). Per parte sua, invece, il pontefice affida ad una piastra in argento (e ad un 16 scudi in oro, di ostentazione) il compito di mettere bene in chiaro come la Chiesa e il pontefice si stiano impegnando in modo deciso nel contrastare i Turchi.
Le piastre escono dalla zecca di Roma battute con coni opera di Giovanni Martino Hamerani (1646-1705). Sul dritto figura il busto a destra del pontefice con camauro, mozzetta e stola ricamata con gli elementi araldici dello stemma Ottoboni (sotto il taglio HAMERANVS F.). Elementi che si ritrovano al rovescio dove è impressa un’elegante e maestosa allegoria della Chiesa con triregno, nella sinistra un’insegna militare e nella destra sollevata, come riportano genericamente tutti i testi, “un tempio”. A circondate la raffigurazione la legenda latina LEGIONE AD BELLVM SACRVM INSTRVCTA, ossia “Allestita un’armata per la Guerra santa”; in esergo, infine, la data 1690 in numeri romani, con al centro l’armetta del presidente della zecca, monsignor Giovan Battista Patrizi.
Interessante notare come l’insegna legionaria, derivata dalla tradizione iconografica imperiale di Roma, sia costituita ancora una volta da elementi che richiamano il pontefice e la sua famiglia: in alto l’aquila bicipite nera che orna il “primo d’oro” del “troncato” araldico, quindi il “trinciato d’azzurro e di verde da una banda d’argento” che costituisce il “secondo” nello stemma Ottoboni. A scendere un tondo con, presumibilmente, il ritratto del papa stesso e quindi due fronde d’alloro intersecate all’asta.
Per quanto riguarda ciò che la Chiesa sorregge nella destra, i testi sulla monetazione papale, ad iniziare dallo Scilla stesso, parlano genericamente di un “tempio” dalla facciata con timpano e sei colonne. L’edifico, raffigurato in prospettiva, presenta un timpano triangolare ornato da tre sculture e, negli esemplari di conservazione maggiore, si può notare come sulla sommità vi sia una cupola con lanterna. Nella esigua dimensione dell’incisione si può anche ipotizzare con buona certezza che le due colonne esterne siano più basse e sostengano dei semitimpani ribassati rispetto a quello principale.
Se vogliamo, quindi, interpretare come una frase propagandistica efficace l’allegoria della Chiesa e i suoi attributi, non possiamo certo pensare al “tempio” come ad un edificio di culto pagano, bensì cristiano e, più nello specifico, veneziano a simboleggiare come “La Chiesa guerriera per volere del pontefice sostiene la Serenissima”. Ma se tale lettura appare abbastanza ovvia e del tutto coerente, altro è individuare a quale edificio di culto di Venezia si sia ispirato l’Hamerani. Probabilmente, più che uno in particolare, l’artista volle raffigurare un “modello diffuso” dal punto di vista architettonico e nel quale possono rientrare vari edifici, soprattutto palladiani, come il Redentore e San Giorgio Maggiore, ma anche San Francesco della Vigna ed altre chiese della Laguna.
Una sorta, dunque, di “paradigma” di sintesi stilistica della religiosità veneziana in aiuto della quale il papa, nativo anch’egli della Laguna, corre in aiuto con la armi nell’ultimo, vano tentativo di restituire alla Repubblica l’influenza e il prestigio di un tempo nel Mediterraneo.