Sfruttando l’immagine di Francesco, Mirandola attua la frode dell’oro, trasformando buone monete in calanti
di Lucia Travaini | Questo frammento di studio dal titolo Mirandola 1524: la frode dell’oro costituisce parte di una più ampia ricerca dal titolo San Francesco e la numismatica: iconografia, e non solo apparsa nel volume Francesco da Assisi. Storia, arte, mito (Carocci Editore, Roma 2019).
Tale ricerca costituisce, ad oggi, l’elaborazione più aggiornata del mio articolo sulle monete rinvenute ad Assisi, nella tomba del santo, e sul legame tra francescanesimo e denaro apparso anni fa nell’edizione cartacea di Cronaca numismatica.
Le prime monete “francescane” della storia
San Francesco d’Assisi fu raffigurato per la prima volta su monete della zecca di Mirandola agli inizi del Cinquecento, ma la vera natura di queste prime emissioni, proprio in relazione all’accostamento con il santo, non è stata finora sottolineata in pieno dagli studi: in modo inaspettato e quasi inquietante, infatti, ne risulta che l’immagine di san Francesco fu usata per suggellare monete d’oro con intento di frode.
Le prime monete che raffigurano san Francesco sono d’oro e furono emesse a Mirandola poco prima del 1524 da Gianfrancesco II Pico (1499-1533).
Noto per la produzione letteraria, Gianfrancesco II ottenne l’investitura del feudo nel 1514 da parte dell’imperatore Massimiliano, il quale nel 1515 gli concesse il diritto di zecca.
Le sue prime monete mostrano un busto di profilo giovanile, con capelli lunghi, e vari tipi di rovescio. In un secondo momento, fece produrre grandi quantitativi di monete d’oro pesanti dal valore di due ducati, o doppioni, di circa 6,8 grammi, un nominale più grande del consueto.
Gianfrancesco II scelse per queste monete un’iconografia altrettanto innovativa: su un lato il proprio busto maturo, corazzato a capo scoperto, e sull’altro, per la prima volta nella storia monetaria, l’immagine bellissima di san Francesco, inginocchiato mentre riceve le Stimmate, con legenda MIRACVLVM AMORIS. Si tratta di incisioni di grande qualità e raffinatezza per le quali ignoriamo il nome dell’artista.
Le doppie del Pico: belle monete di dubbia bontà
Queste splendide immagini erano però destinate a prodotti di qualità dubbia, come sappiamo in particolare dalla Cronaca del modenese Tomasino de’ Bianchi detto il Lancellotti (si veda Lorenzo Bellesia, La zecca dei Pico, Publi-Paolini, Mantova 1995, pp. 77-8).
Come spiegare la produzione a Mirandola di questi doppi ducati d’oro in grande quantità, maggiore che in altre zecche più importanti? La ragione era nell’attività di lucro compiuta in quella zecca, che attirava oro da altre piazze con prezzi vantaggiosi in cambio delle nuove monete.
Si drenavano quindi monete d’oro buone per portarle a Mirandola e trasformarle nel nuovo oro, bello ma calante.
Il cronista modenese ricorda che, dopo aver messo in circolazione in tutta Italia questi doppioni, solo in seguito alle proteste di tanti, incluso il papa, il 2 luglio 1524 il signore di Mirandola fece tagliare la testa al suo zecchiere Santo di Bochali, per aver fatto “dupioni et ducati de oro falsi” (cit. ivi, p. 77), anche confiscandogli i beni per poter risarcire quanti fossero andati a Mirandola per ottenere soddisfazione del danno.
Gianfrancesco II, tuttavia, non solo non mantenne le promesse di risarcimento, ma nello stesso tempo continuò a lucrare: dalla stessa fonte sappiamo che, pochi mesi dopo l’esecuzione dello zecchiere, la zecca mirandolese era tornata a produrre doppioni d’oro non migliori dei precedenti, con una nuova immagine del signore, ora con berretto, ma sempre con san Francesco.
Le zecche erano imprese e consentivano ampi margini di lucro; chi aveva il diritto di zecca, come nel caso del signore di Mirandola, poteva concederla in appalto concordando un compenso d’affitto con l’appaltatore; una volta avviata la produzione, lo stesso signore percepiva poi ulteriori guadagni derivati dalla quantità di moneta prodotta.
Morto uno zecchiere “fraudolento”… se ne fa un altro!
Agli inizi del 1524, tutte le buone monete d’oro sparivano dalla piazza di Modena e venivano portate alla zecca di Mirandola, che le attirava per convertirle convenientemente nelle sue monete d’oro: Gianfrancesco II non poteva essere all’oscuro delle cause del suo grande guadagno!
Il cronista Lancellotti, infatti, giustamente aveva capito che lo zecchiere messo a morte era soltanto un capro espiatorio per poter continuare le stesse attività lucrose.
Del resto, è noto che piccoli Stati, una volta ottenuto il privilegio di batter moneta, potevano essere un utile punto di produzione e smistamento di prodotti calanti, se non proprio contraffatti. Zecche di Stati più importanti – viceversa – erano più difficilmente soggette a produzioni truffaldine.
Quindi, decapitato il primo zecchiere, Gianfrancesco II continuò a far battere splendide monete cattive con un nuovo appaltatore: guadagnarono ampiamente entrambi, finché fu possibile, ma non sappiamo per quanto tempo ancora.
La frode monetaria non sfuggiva al controllo dei governi: conosciamo diversi provvedimenti monetari volti fin dal 1524 a bandire dalla circolazione le monete di Mirandola, con esiti non sempre fruttuosi.
Le monete di Mirandola oltre i confini d’Italia
Le belle ma cattive monete con san Francesco e iscrizione MIRACVLVM AMORIS si diffusero rapidamente ben oltre la Lombardia.
Ne troviamo una traccia inattesa a Zurigo nel marzo 1526, tra le vicende personali di un frate francescano nel momento tormentato della sua scelta tra l’osservanza romana e la riforma protestante.
Si tratta del frate umanista Corrado Pellicano (Konrad Pelikan, 1478-1556), autore di un Chronicon in latino che è una fonte preziosa sulla sua vita e non solo.
Ancora nel 1525, nel convento di Basilea rivendicava la propria continua fedeltà francescana; nel gennaio 1526, però, fu invitato da Ulrico Zwingli a insegnare greco, ebraico e Antico Testamento presso la scuola di teologia di Zurigo.
Il frate accettò prontamente e già il 1° marzo tenne la prima lezione. Il 16 marzo 1526 depose l’abito monastico e indossò vesti comuni e “per la prima volta, dopo trentatre anni, con le proprie mani toccò delle monete tra le quali ve n’era una con impressa l’immagine di san Francesco accompagnata dalla scritta MIRACVLVM AMORIS; ciò gli parve di buon auspicio, quasi che l’effigie monetaria trasmettesse una sorta di consenso che il ‘pio Francesco’ (pius Franciscus) dava alla sua nuova vita” (cfr. Giovanni Grrado Merlo, Nel nome di san Francesco. Storia dei frati minori e del francescanesimo sino agli inizi del XVI secolo, Editrici Francescane, Padova 2003, pp. 426-7).
Frate Corrado stava peraltro maturando, allora, la convinzione che il possesso del denaro non fosse perciò un elemento necessariamente negativo. Nella realtà, l’immagine di Francesco sulla moneta d’oro di Mirandola, interpretata da frate Corrado come un rassicurante consenso del santo, era invece copertura di una frode monetaria.
In definitiva, aveva ragione san Francesco…
Le cattive monete d’oro mirandolesi avevano impestato la circolazione, ingannando molti e, alla luce della ricerca numismatica, anche frate Corrado; il san Francesco coniato su queste cattive monete sembra in fondo dar ragione allo stesso Francesco che metteva in guardia i suoi frati in merito alla pericolosità delle monete.