Una fusione e una coniazione di Giovanni Zanobio Weber ricordano la concessione della corona capitolina a Maria Maddalena Morelli Fernandez
di Isabella Amaduzzi | Il 31 agosto 1776 a Roma, nella Gran sala del Palazzo consolare, Maria Maddalena Morelli Fernandez, detta “in Arcadia” Corilla Olimpica, riceve la massima onorificenza a cui un poeta poteva aspirare: la corona capitolina.
Corilla Olimpica, nata a Pistoia nel 1727, è una delle più richieste improvvisatrici d’Europa. Le sue umili origini non le hanno impedito, lei donna caparbia, ambiziosa e di intelligenza precoce, di intraprendere una sfolgorante carriera di poetessa estemporanea. Nominata poetessa di corte da Francesco di Lorena in Austria e poetessa della corte di Toscana dal granduca Pietro Leopoldo, Corilla si esibisce nelle principali corti europee, da San Pietroburgo a Vienna, da Parma a Firenze, da Venezia a Roma.
La vita e la carriera di una poetessa estemporanea non sono prive di difficoltà e ostacoli; l’arte dell’improvvisazione – a metà tra la lirica e il teatro – se indubbiamente richiede preparazione accademica, vasta cultura generale e una sapiente conoscenza della metrica, dall’altro impone l’uso di tutte le tecniche di seduzione e fascinazione tipiche dell’attrice.
L’improvvisatrice è nel Settecento una “donna pubblica” le cui doti artistiche devono essere spesso difese da maliziosi fraintendimenti. Ma la cerimonia in Campidoglio, che avrebbe dovuto coronare i successi di Corilla, di fatto si rivelò una tragedia, forse il capitolo più drammatico dell’esistenza della poetessa. Il tutto avvenne quasi furtivamente per la forte l’ostilità di buona parte dell’ambiente conservatore romano e per i troppi interessi politici che si celavano dietro l’incoronazione.
Gravi defezioni e pesanti ingiurie contro la celebre improvvisatrice toscana, durante e dopo la cerimonia, costrinsero Corilla ad abbandonare Roma e a rifugiarsi a Firenze. Qui, dove morirà nel 1800, vivrà anni di solitudine e tristezza come testimoniano alcuni passi di una lettera inviata all’abate savignanese Giovanni Cristofano Amaduzzi nel novembre 1776.
“Voi sapete che mai pensava alla corona Capitolina, e con quanta risolutezza voleva rinunziarla, ma l’ambizione di chi promosse questa corona mi costrinse a non rinunziare, e le dicerie dei nemici mi obbligarono da ultimo, per non ricevere uno sfregio maggiore di sentir dire, che ero stata obbligata alla rinunzia, per forza mi obbligarono dico a riceverla. L’amor di Roma per me valeva più di una supposta gloria di poche sterili fronde, fertili di cento disgusti e inimicizie. Cosa importa a me che dopo morte che si dica che io ebbi una corona in Campidoglio? Il vivere in pace e amata come io lo era l’anno scorso costà è quello che stimo e ho stimato sempre, e per mia disgrazia non sono stata mai tanto infelice quanto adesso”.
Nonostante le polemiche legate all’incoronazione e che hanno in larga misura segnato il triste destino di Corilla, e nonostante il clima persecutorio che ha in parte contribuito ad un parziale oblio della sua arte esistono preziose testimonianze, o meglio omaggi alla poetessa, che ci possono accompagnare a rivivere quella notte del 1776 e a riscoprire il volto di Corilla, unica donna nella storia a venire incoronata con l’alloro in Campidoglio.
Prima fra queste preziosità una medaglia realizzata nel 1776 da Giovanni Zanobio Weber (1737-1806), sulla cui gestazione ed esecuzione abbiamo notizia consultando il carteggio tra la poetessa e Amaduzzi. In una lettera datata 2 dicembre 1777 – inviata dal Talenti all’Amaduzzi per conto di Corilla – troviamo un invito all’abate ad esprimere un parere intorno al rovescio di una medaglia che si stava preparando per commemorare l’incoronazione.
“Si pensa uno di far coniare una medaglia e ne ha chiesto il permesso al Sig.r Senatore [Ginori], e tutto il difficile consiste nel rovescio. Egli con tutta ragione ha una particolare stima di Voi, e perciò vi si indirizza per mezzo mio pregandovi a mandargli un dettaglio di questo rovescio persua[s]o che mandato da voi sarà interessante, espressivo, e privo da (sic) qualunque pericolo da poter essere interpretato sinistramente da nemici. Due sono stati i rovesci, che Egli con alcuni amici avrebbe ritrovato de quali vi mando dettaglio perché voi ne dicete (sic) il vostro giudizio. Il primo Rappresenta Roma col Campidoglio e diversi altri geroglifici col motto: Veteres renovavit artes. L’altro rappresenta il Sole che manda i suoi raggi sulla terra, diversi Etiopi o Mori, che ne sono investiti. Molte freccie per aria, e per terra, quelle che vanno in su, e tornano in giù, e altre, che giaccionin qua, e là. I mori med.mi in diversi atteggiamenti scaricando i loro Archi contro il Sole col motto levato da Giob: Qui maledicunt Diei. Considerate questi date il vostro sentimento e aggiungete anche il vostro perché poi quello che pensa di far coniare questa Medaglia scelga quello che più lo aggrada”.
Se non siamo – purtroppo – a conoscenza del giudizio espresso dall’Amaduzzi abbiamo però la possibilità di soffermarci sulla medaglia che, sebbene sia stata inserita tra i “testardi tentativi di mantenere in vita nella seconda metà del Settecento la grande medaglia fusa di tradizione barocca” (secondo Fiorenza Vannel e Giuseppe Toderi), resta un interessante punto di partenza non solo per la ritrattistica di Corilla, ma per tutta la sua vicenda biografica, i suoi legami con l’Arcadia e più in generale i protagonisti del Settecento italiano.
Sul dritto è ritratta l’improvvisatrice toscana in età matura – all’epoca dell’incoronazione aveva quarantotto anni – con la corona d’alloro in capo testimonianza dell’avvenuta incoronazione come attesta la dicitura posta alla base del busto.
Il rovescio offre invece la scena allegorica di cui scriveva il Talenti che risulterebbe di difficile lettura – sulla medaglia sono infatti ritratti cinque indigeni nell’atto di scagliare delle frecce contro un potente sole – se non ci venisse in aiuto il sonetto di un sconosciuto che ritroviamo tra gli Applausi poetici raccolti in un’opera di un altro illustre arcade Obindo Vagiennio, meglio conosciuto come Giambattista Bodoni.
Sfogliando infatti gli Atti della Solenne Coronazione fatta in Campidoglio della insigne poetessa D.na Maria Maddalena Morelli Fernandez Pistojese tra gli Arcadi Corilla Olimpica, in quarto piccolo e impressi “nella stamperia reale di Parma il dì XXX giugno dell’anno di nostra riparata salute M.DCC.LXXIX” a pagina 201 si legge: “Sorge l’Astro del giorno, e un momento / Lancia su l’ampia terra il raggio aurato; / Ma percossa da lui l’Etiope, irato / Gli avventa incontro e cento strali e cento”
Il sonetto è una esaltazione della poetessa, lei astro con i suoi versi diffonde “il raggio aurato”, ma uomini incolti e invidiosi le lanciano contro frecce; un’opposizione che non porta alcun risultato infatti le frecce ricadono su di essi a loro danno e il sole continua a splendere. Come del resto conferma la terzina del sonetto: “E se un rauco latrato, o un dardo imbelle / Ti vibra Invidia, ah! non temer, che invano / S’accinge l’empia ad oscurar le stelle”
La medaglia commemora dunque l’evento dell’incoronazione, celebra il personaggio illustre tracciandone più o meno indirettamente la vicenda biografica e implicitamente ci trascina a sfogliare un prezioso volume che che per l’armoniosa conformità grafica e tipografica all’argomento, tenuta costante in ogni pagina, ne fa un esempio perfetto di gusto settecentesco, a metà via tra leggerezza arcadica e rigorosa semplicità classica.
Giova inoltre ricordare che il volume del Bodoni nasce come omaggio del tipografo parmense alla poetessa, come testimonia l’epigrafe posta alla base del ritratto di Corilla in apertura di volume. Si tratta di un delicato ma veritiero ritratto della donna con il capo cinto della corona d’alloro realizzato probabilmente sulla base dei fregi di Evangelista Ferrari e per mano di uno dei migliori incisori italiani dell’epoca, Domenico Cagnoni con dedica di Bodoni, “in Arcadia” Obindo Vagiennio a Maria Maddalena Morelli Fernandez, alias Corilla Olimpica.
Giambattista Bodoni volle infatti pubblicare a proprie spese la raccolta degli atti animato da spirito illuminista di ricerca della verità, di anelito alla coerenza e all’esattezza dei fatti e mosso da una radicata volontà di trasmettere ai posteri testimonianze corrette come testimoniano alcune righe dell’avvertenza ai lettori posta in apertura del volume: “Giunti dunque un mia mano gli opportuni Documenti, mi sono avvisato di far cosa graditissima ai sani estimatori del vero Merito col non lasciare più lungamente sparsi e negletti gli Atti d’una Poetica Corona donata con tanta celebrità, e giustizia dall’Autorità Pubblica ad una eccellente Improvvisatrice, qual è la valorosa CORILLA OLIMPICA.
A pubblicarli pur anche mi ha stimolato non solamente l’amicizia, e la stima, che ho per Lei, ma il vedere altresì, che nel secolo XIV, in cui fu coronato il Petrarca per non essersi adoperate le convenevoli diligenze, gli Atti della Coronazione d’un sì grand’Uomo sono scritti quasi in istile favoloso, e riferiti dagli Scrittori con molte contraddizioni, e oscurità, non restandoci altro di certo, che qualche memoria lasciata dallo stesso Autore nelle sue Opere”.
Analogamente interessato ad un ritratto realistico e solido della poetessa pare essere stato lo scultore irlandese Christopher Heweston che, sempre in occasione dell’incoronazione, realizzò un busto in marmo della poetessa – un tempo collocato in una sede dell’Arcadia e oggi conservato nella capitale al Museo di Roma – ritraendola quasi in modo “virile” quasi a voler confermare il rifiuto di Corilla di adeguarsi al modello di poetessa petrarchesca.
C’è poi una seconda medaglia, di piccolo modulo (mm 37) e coniata in bronzo, sempre opera del Weber, che risale al 1779 e sul cui dritto campeggia il ritratto della poetessa mentre al rovescio, entro una corona d’alloro, si trova la legenda latina su cinque righe POST HOMINVM MEMORIAM NEMINI SECVNDA (traducendo liberamente, “Seconda a nessuno a memoria d’uomo”). Il 1779 è l’anno della pubblicazione degli atti della solenne incoronazione della poetessa e, in mancanza di altre informazioni, si può supporre che la medaglia sia stata prodotta per l’occasione, magari su commissione del Bodoni, a ennesima riprova della notorietà di Corilla Olimpica.
Due medaglie, un’incisione e un busto in marmo danno a questa donna, la cui opera e la cui personalità sono stati spesso danneggiate sia da persecuzioni immeritate sia da esaltazioni esagerate, un volto: ci fanno conoscere una Corilla matura, forte, probabilmente non bellissima, ma indubbiamente affascinante, una donna che, come scrisse l’abate Benedetti, uno dei pochi nobili presenti all’incoronazione era “d’alta statura, di bianca carnagione, con lunghi capelli biondi non impolverati e sciolti. Ha occhi vivacissimi azzurri, bocca un po’ grande ma rosea e sorridente, petto ricolmo, braccia nude e ben tornite, veste abito di raso bianco e porta un manto di velo cosparso di stelle d’argento. Ricorda il ritratto di Maria Teresa, che incede come una regina”.
L’essere dei ritratti di Corilla Olimpica è quello che accomuna queste differenti espressioni artistiche; il ritratto, quello che gli antichi definivano “una figura cavata dal naturale”, il ritratto che nel corso dei secoli ha rappresentato oggetto di studio per le sue implicazioni morali, filosofiche, religiose e sociali e di cui se ne è esaltato o criticato il valore mimetico, propagandistico o memoriale, quello stesso ritratto che, proprio nel Settecento – il secolo dei Lumi, ma anche quello della riscoperta dei poteri dell’immaginazione e della così tipici del mondo della metafora e dell’improvvisazione – acquista dignità e virtù.