Coniati nel XIII secolo, testimoniano le lotte tra guelfi e ghibellini | Di grande rarità, ci riportano a Dante e alla stagione dei Comuni
di Enrico Piras | Nel celebre canto XXXIII dell’Inferno, Dante racconta la terribile fine del conte di Donoratico, Ugolino della Gherardesca. La sua colpa era stata quella di aver portato la sua città, Pisa, sotto il dominio guelfo.
La fazione ghibellina, guidata dall’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, si prese la rivincita nel 1288: il conte fu arrestato e, insieme a due dei suoi figli, Gaddo e Uguccione (allora appena bambini) e a due nipoti, Nino e Anselmuccio, fu rinchiuso nella torre del Gualandi, dove venne lasciato morire di fame. Ugolino, oltre ad essere un protagonista della storia dei Comuni italiani, ebbe un ruolo abbastanza rilevante anche in quella della Sardegna medioevale.
Infatti, dopo la fine del Giudicato di Cagliari nel 1258, fu lui a guidare i Pisani nella lotta contro Genova per il dominio dei vecchi territori giudicali. Preso possesso di parte di essi, sfruttò le miniere di piombo e di argento di cui era ricco il Sulcis e fu artefice del rapido sviluppo della città di Villa di Chiesa (l’attuale Iglesias).
La moneta di cui parliamo fu fatta coniare da Pisa proprio nella zecca di questa cittadina, per cui a sua volta riguarda tanto la storia sarda quanto quella toscana, e muove l’interesse dei numismatici di entrambe le sponde del Tirreno.
Si tratta si una moneta d’argento di 21 mm di diametro, chiamata grossetto nel Corpus Nummorum Italicorum, ma aquilino in tutti i documenti a questo coevi e successivi. Tale denominazione deriva dall’iconografia della moneta stessa. Infatti, essa reca al dritto l’aquila imperiale, simbolo di Federico II, nipote di Federico Barbarossa, che aveva concesso a Pisa lo ius cudendi, ovvero il privilegio di battere moneta propria.
All’aquila si accompagna la legenda FEDERIC’ INPATOR, mentre al rovescio sono presenti una croce e due cerchi concentrici con la legenda FACTA INVILLA ECLESIE PCOMI PISANO, ovvero “Coniata a Villa di Chiesa per il Comune di Pisa”.
Proprio il rovescio differenzia questa moneta dal coevo grosso minore battuto a Pisa (del quale è comunque l’equivalente), che reca l’effigie della Vergine col bambino. L’aquilino è l’unica moneta battuta in Sardegna a nome di un Comune italiano la sua coniazione risalte verosimilmente al periodo fra il 1302 e il 1323.
A partire dal 1324, i nuovi padroni dell’isola misero fuori corso le vecchie monete pisane e ne ordinarono il ritiro e la rifusione, motivo per cui l’aquilino è oggi estremamente raro. Le vicende di questa moneta si intrecciano poi con quelle di un’altra, più vecchia di alcuni anni e altrettanto ambita dai collezionisti. Per sapere come, dobbiamo tornare per un attimo alla cronaca storica, facendo un passo indietro.
Dopo la morte del conte Ugolino, i suoi figli maggiori, Guelfo e Lotto della Gherardesca, ne ereditarono i possedimenti sardi e, temendo persecuzioni da parte dei Pisani (ora governati dai ghibellini), si arroccarono a Villa di Chiesa, rinforzandone le fortificazioni. Il desiderio di vendicare la morte del padre doveva essere forte, e fu così che, quando Guelfo catturò un certo Vanni Gubbetta, ex vicario dell’odiato arcivescovo Ruggieri, non esitò a metterlo a morte dopo averlo fatto torturare orrendamente.
Non sappiamo se l’uccisione del Gubbetta abbia dato qualche soddisfazione ai due fratelli, ma certo provocò l’immediata reazione dei Pisani, che nel 1294 inviarono in Sardegna un’armata. Assediati, Guelfo e Lotto dovettero arrendersi e cedettero Villa di Chiesa ai nuovi conquistatori. Successivamente rifugiatisi dalle parti di Sassari, i conti di Donoratico morirono entrambi nel 1295, appena sei anni dopo il padre.
Nel frattempo, però, avevano fatto in tempo a istituire a Villa di Chiesa una zecca, arrivando a battere moneta. In realtà, il tipo monetale battuto fu uno solo: un grosso tornese. Questa moneta è una delle tante imitazioni del grosso tornese di Luigi IX il Santo. I pochissimi esemplari che ci sono rimasti, realizzati in una mistura di argento e piombo, denunciano una fattura meno accurata degli originali francesi, ma tutto sommato reggono abbastanza bene il confronto con le splendide monete del re d’Oltralpe.
Al dritto recano lo stemma dei Donoratico, mentre al rovescio presentano una croce. Non è del tutto chiaro il motivo alla base di questa emissione; le fonti che abbiamo a disposizione sono decisamente scarne, però qualche ipotesi può essere avanzata.
Da un lato la volontà, da parte di Guelfo e Lotto, di manifestare con una moneta d’ostentazione l’indipendenza da Pisa; dall’altro, la necessità di avere a disposizione liquidità per far fronte alle spese per la guerra e la fortificazione di Villa di Chiesa.
Il tipo monetale scelto, in ogni caso, indica abbastanza chiaramente che i domini dei figli di Ugolino, all’epoca, si trovavano già sotto l’influenza economica e politica di Genova: i grossi tornesi di Filippo il Bello, discendente di Luigi IX, erano stati introdotti in Sardegna dai mercanti genovesi, ed inoltre Lotto era stato prigioniero di guerra a Genova, e si era riscattato dalla prigionia sia tramite il pagamento di 20.000 lire di genovini sia impegnandosi con la città ligure nella lotta contro i Pisani, ormai suoi nemici.
Dopo la fine del dominio dei Donoratico sui territori dell’ex Giudicato di Cagliari, i loro grossi tornesi vennero ritirati dalla circolazione e riportati in zecca, per essere sostituiti dagli aquilini, che a loro volta, come abbiamo visto, ebbero lo stesso destino. Due monete accomunate da una vita breve e, croce e delizia dei numismatici, dalla grande rarità.