La fenice, animale mitologico simbolo di perpetua rinascita e celebrata da poeti e filosofi, appare anche su alcune belle monete italiane
di Antonio Castellani | Quelli del titolo sono versi di Pietro Metastasio – poeta vissuto nel ‘700, amante di soggetti storici e mitici – che hanno assunto un valore proverbiale per indicare una cosa che non può esser trovata. Ma forse pochi ricordano che queste parole si riferiscono alla fenice, un uccello sacro agli Egizi dalle sembianze e dall’esistenza da favola.
Questa creatura mitologica compare al rovescio – fra gli altri – di un tipo monetale dalle caratteristiche imperscrutabili, legate a un mondo a noi lontano nella mentalità più ancora che nel tempo: si tratta dei 30 tarì (oncia) in argento battuti a Palermo a fine XVIII secolo.
Il diametro di 57 mm per le date 1785 e 1791, mm 47 per il 1793, enorme e inconsueto per una moneta, offre spazio al ritratto di Ferdinando III di Borbone e alla raffigurazione della fenice. Il campo è infatti occupato dall’imponente uccello ad ali spiegate, mentre brucia e si consuma su un grande falò, il corpo lambito da lingue di fuoco; il capo è raffigurato di profilo e gli occhi fissano con atteggiamento di nobile sfida un sole che lancia raggi nel pieno del suo splendore.
Fin da tempi antichissimi scrittori e astrologi ci parlano di questo fantastico uccello. Erodoto è il primo a parlarci di questo animale dopo averne viste di persona, a suo dire, varie raffigurazioni e lo descrive simile ad un rapace con piume di colori variegati e squillanti. Ma più che all’aspetto il suo alone di mistero è legato alla sua origine e alla sua vita: originaria dell’Etiopia, la fenice viveva in questo paese per cinquecento anni e più cibandosi di perle d’incenso fino a quando sentiva arrivare la morte.
Si preparava allora un nido di frasche e legni aromatici, vi si stendeva e moriva arsa dal rogo della pira. Dalle ceneri rinasceva un nuovo uccello che volava ad Eliopoli, la “città del sole” in Egitto, e di lì, dopo cerimonie di consacrazione al dio Sole, si trasferiva di nuovo in Etiopia dove riprendeva, in un ciclo senza fine, la sua esistenza sospesa nei secoli. Secondo un’altra variante del mito, invece, la fenice figlia di quella arsa sul rogo ne portava le spoglie racchiuse in un uovo di mirra dall’Arabia ad Eliopoli.
Il mito della fenice, troppo affascinante e ricco di simboli per rimanere relegato nell’antichità, venne ripreso e interpretato da varie correnti filosofiche e religiose: gli astrologi antichi lo misero in relazione con la teoria del “grande anno”, detto anche “anno cosmico”, un ciclo vitale destinato a consumarsi e a chiudersi in una deflagrazione dalla quale è destinato a rinascere un nuovo ciclo di esistenza; la vita di Cristo è stata spesso accostata allegoricamente alla figura della fenice.
Ma anche poeti e scrittori hanno attinto al mito della fenice: ricordiamo Ovidio, Tacito e Dante (Inferno, XXIV, 107-111). L’araldica utilizza la figura del mitico uccello per indicare la longevità della famiglia cui la fenice viene associata (il rogo viene definito “immortalità”) e l’iconografia usata è quella che troviamo sul pezzo da 30 tarì.
Strettamente legata alla scelta figurativa è la legenda che la circonda: EX . AVRO. ARGENTEA. RESURGIT. (“Dall’oro risorge l’argento”) in cui il verbo “risorge” rimanda alla longevità della famiglia, della sua gloria, della sua attività politica e della produzione monetale, ma soprattutto allude al fatto che l’oncia risorge dalle sue stesse ceneri dopo essere rimasta dimenticata (“oblita” come si legge sulle emissioni a nome di Carlo III).
Le prime once d’oro e d’argento furono emesse dalla zecca di Palermo già a nome di Carlo III di Sicilia (VI imperatore), sul trono dell’isola dal 1720 al 1734 (re di Napoli dal 1707 al 1734, imperatore dal 1711 al 1740). L’oncia, come sappiamo, era un’unità monetaria di origine proprio sicula e italica, adottata anche dal mondo romano ed era rimasta, per secoli, una moneta di conto: ora era “risorta dalle ceneri”. Ai lati del rogo troviamo le sigle degli zecchieri.
Decisamente rozza, ma efficace per il suo espressionismo, è la qualità del ritratto al dritto dell’oncia 1793 (quelle del 1785 e del 1791 sono di miglior fattura): l’aspetto di re Ferdinando è quella d’un uomo d’armi dai tratti grossolani, bonario nello sguardo, dal collo taurino e dalla vita spartana. In realtà il suo regno fu costellato di eventi dalla portata e dall’ampiezza storica che non seppe gestire con la lungimiranza e le capacità politiche che esigevano (per tutti ricordiamo la Rivoluzione francese e l’epopea napoleonica).
Quest’oncia appartiene al suo primo periodo di regno sulla Sicilia, quello nel quale tenta di moderare lo strapotere dei proprietari terrieri. Nonostante a Napoli il movimento illuminista fosse vivace, la monarchia non riuscì mai a scrollarsi di dosso l’aristocrazia terriera e i latifondisti, con le loro pretese di immobilismo.
Il re incaricò Giuseppe Maria Galanti di indagare sulle condizioni del regno: iniziativa illuminata e moderna, anche se, in pratica, non ne tenne mai conto. Da questa ricerca emerse, per la Sicilia in particolare, un quadro di spaventosa arretratezza.
Sotto il ministero di Sir John Francis Edward Acton fu decretata, nel 1792, la suddivisione dei demani comunali a favore dei tanti contadini nullatenenti; ma di fatto avvenne l’esatto contrario e dei terreni pubblici si appropriarono i già potentissimi latifondisti senza che nessuno osasse bloccare la loro prepotenza feudale. Il viceré di Sicilia Vincenzo Caracciolo non poté nulla di fronte alla strenua opposizione da parte dell’aristocrazia di fronte a qualsiasi politica riformista.
Queste monete, con data 1973, non sono particolarmente rare; spesso non sono ben conservate, anche a causa di un conio poco raffinato e curato. E alcuni collezionisti non amano queste monete per la sommarietà dei tipi, il cesello poco accurato, ma ciò fa parte del fascino di questi pezzi che si affacciano all’epoca contemporanea con elementi ancorati ad un mondo chiuso, geloso dei propri privilegi, sicuro di risorgere in perpetuo dalle proprie ceneri.