Camerlengo nella Sede Vacante del 1565, batté giuli e testoni oggi rarissimi | Dietro le monete la storia dei Vitelli, signori “minori” del Rinascimento
di Roberto Ganganelli | Nove dicembre 1565: dopo sei anni di pontificato si spegne, circondato dal nipote Carlo Borromeo e da Filippo Neri, papa Pio IV Medici. Con lui scompare l’artefice della ripresa dei lavori al Concilio di Trento nel 1562 , ma anche il mecenate che aveva chiamato Michelangelo a restaurare le porte della Città Eterna ed aveva affidato a Paolo Manuzio la stampa dei testi ufficiali della Chiesa.
Non è tuttavia il pontificato del Medici ad interessarci quanto, piuttosto, le vicende di un personaggio da lui fatto ascendere nelle gerarchie ecclesiastiche fino alla carica di cardinale camerlengo: stiamo parlando di Vitellozzo, della famiglia Vitelli di Città di Castello.
Vitellozzo Vitelli, un giovane e rampante prelato di provincia
Figlio di Alessandro Vitelli, condottiero e signore de facto in Alta Valle del Tevere, e di Angela Rossi di Parma, Vitellozzo nacque a Firenze il 6 aprile 1532 (la sua famiglia era legata ai Medici); studiò a Bologna e a Padova e Giulio III Ciocchi Del Monte lo nominò, a soli diciannove anni, chierico di Camera.
Nel 1554 divenne “vescovo amministratore perpetuo della chiesa tifernate” ma, nonostante la severità delle bolle pontificie in materia, ottenne l’esonero dall’obbligo di residenza nella diocesi e continuò, così, a frequentare assiduamente la corte romana.
Quando Paolo IV Carafa elevò il nipote Alfonso e il Vitelli alla porpora cardinalizia nel 1557, tra i due giovani si strinse un patto di mutua collaborazione che durò molti anni e condusse il nostro, dopo la partecipazione ai lavori del Concilio di Trento, fino alla carica di camerlengo ottenuta nel 1564, in sostituzione dello scomparso cardinale Ascanio Sforza.
Nel documento di concessione, firmato da Pio IV, si sottolineano la “cognita bonitas”, la “integritas fidei” e la “summa justitia observantia” del prescelto, ma più d’uno studioso ha ravvisato, nello stile cancelleresco del testo, il modo per celare un merito ben più concreto del Vitelli, e cioè l’aver sborsato all’erario pontificio la cospicua cifra di 76 mila scudi d’oro.
Considerato il sistema monetario del tempo, basato sullo scudo d’oro “delle sette stampe” tagliato a 100 pezzi per libbra per un peso di g 3,389 ed un titolo di 916,66‰ si deduce che, per l’occasione, il cardinale scucì la bellezza di più di 237 chili d’oro in sonanti monete.
La nomina a camerlengo e il diritto di battere moneta
Sta di fatto che con la carica ottenuta il Vitelli ascese ad un livello di potere enorme che, oltre a renderlo responsabile della segretezza e regolarità del Conclave in caso di morte del papa, lo metteva anche in grado, durante la Sede Vacante, di battere moneta con le proprie insegne per tutti i possedimenti pontifici. Così avvenne anche quando la chiesa fu chiamata designare il successore di papa Medici.
Con ciò si rispettava la consuetudine di non interrompere le emissioni di moneta nel periodo tra un pontificato ed il successivo; tale strategia era dettata da motivazioni economiche, politiche e di costume, che vale la pena ricordare.
In primo luogo la moneta, segno di sovranità e potere, avrebbe ribadito durante la Sede Vacante la continuità dell’autorità della Chiesa, autorità che si voleva far discendere direttamente da Dio a livello temporale oltre che spirituale, e che restava indiscutibile nonostante l’assenza di un pontefice.
Dal punto di vista finanziario, poi, le emissioni di Sede Vacante erano necessarie per la durata imprevedibile del Conclave, che in caso di prolungamento avrebbe potuto far verificare un diradamento del circolante, specie aureo ed argenteo, con difficoltà per i commerci e per l’erario; infine, in un’epoca in cui le gerarchie ecclesiastiche erano ricche di personaggi con aspirazioni politiche e mondane, nessun camerlengo si sarebbe fatto sfuggire l’occasione di apporre le proprie armi sulle monete dello Stato Pontificio e farsi, così, una notevole propaganda per la propria carriera futura.
Roma, Ancona e Macerata per le rarissime coniazioni del 1565
A riprova di tutto ciò, nel pur breve arco di tempo a sua disposizione, il Vitelli riuscì a far realizzare tre emissioni, rispettivamente per le zecche di Roma, Ancona e Macerata.
Nella zecca di Roma venne battuto un giulio d’argento (mm 27 – peso legale g 3,253) con le seguenti caratteristiche: D/ Stemma ovale sormontato da chiavi e padiglione, in cerchio ∙ SEDE ∙ VAC | ANTE ∙ 1565; R/ San Pietro a figura intera, stante (triscele) SANT (triscele) PETRUS ∙ | ∙ ALMA (triscele) ROMA, in basso a destra armetta dello zecchiere Girolamo Ceuli. MUNT 1: il Muntoni cita l’esemplare, nel Medagliere Vaticano, come probabilmente unico; chi scrive non è a conoscenza di passaggi mercantili o esemplari in collezioni private.
Ad Ancona venne invece emesso un testone (mm 30, peso legale g 9,927): D/ Stemma ovale in cornice con chiavi e padiglione, in cerchio SEDE ∙ VA | C | ANTE ∙; R/ San Pietro di fronte, a figura intera, in trono, benedicente, in cerchio: ∙ S ∙ PERTUS ∙ | ∙ APOSTOLUS ∙, in basso a destra armetta dello zecchiere Mazzeo Mazzei, in esergo: ∙ ANCO ∙. MUNT 2.
Il CNI attribuisce questa emissione, erroneamente, alla Sede Vacante del 1585 per un evidente un refuso, non essendovi dubbi sull’attribuzione alla Sede Vacante 1565, per il motivo che l’armetta al R/ appartiene allo zecchiere Mazzeo Mazzei, mentre nel 1585 era zecchiere in Ancona Stefano Benincasa e inoltre, nel 1585, il Vitelli era già deceduto da anni.
Infine, anche l’officina monetaria di Macerata batté un testone (mm 31, peso legale g 9,927) di cui sono note due varianti di dritto: D/ Stemma ovale in cornice con chiavi e padiglione, in cerchio: ∙ SEDE ∙ V | ACANTE oppure SEDE ∙ VA | CANTE ∙; R/ San Pietro di fronte, a figura intera, in trono, benedicente, in basso a destra armetta dello zecchiere Mazzeo Mazzei, in esergo ∙ MACER ∙. MUNT 3 e MUNT 4.
Dal punto di vista iconografico, le raffigurazioni di san Pietro sui testoni risultano identiche a quelle degli stessi nominali battuti durante il pontificato di Pio IV; quindi è possibile che, data la situazione di emergenza e al fine di snellire i tempi di allestimento delle emissioni, siano stati riutilizzati per i rovesci dei coni già esistenti modificando solo il dritto con l’apposizione dello stemma del camerlengo e delle relative iscrizioni riguardanti la Sede Vacante.
Le monete qui descritte risultano, a causa del breve periodo di emissione, estremamente rare, ed anche gli esemplari conservati nella Collezione Reale e nel Medagliere della Biblioteca Apostolica Vaticana sono in conservazione scadente.
Evidenze numismatiche di una famiglia di signori del Rinascimento
L’interesse storico di questi giuli e testoni sta nel fatto che essi costituiscono l’unica emissione a nome di un membro della famiglia Vitelli, che pure furono signori di Città di Castello per due secoli, ma senza alcuna concessione di zecca o privilegio di battere moneta.
I Vitelli, ricchi mercanti fin dal XIV secolo, acquisirono la signoria con Niccolò che, in buoni rapporti con il papa e amico di Lorenzo il Magnifico (che aveva difeso durante la congiura dei Pazzi), ebbe l’abilità di amministrare le difficili terre al confine tra i due stati. Il figlio Vitellozzo fu capitano di ventura e finì trucidato da Cesare Borgia, il Valentino. Fu solo grazie al giovane cardinale, tuttavia, che la casata tifernate ebbe la possibilità di apporre le proprie armi sulle monete di una potente nazione, quale era nel XVI secolo lo Stato della Chiesa.
Per quanto riguarda il giovane prelato, però, le sue fortune terminarono presto: nel 1566 la madre Angela Rossi, vera e propria “tirannessa feudale” venne processata dall’Inquisizione e rinchiusa in Castel Sant’Angelo per le efferatezze compiute a Città di Castello (la leggenda vuole, fra l’altro, che gettasse i suoi amanti nei trabocchetti del palazzo “alla Cannoniera”); il figlio, invece, morì due anni dopo, alla fine del 1568, all’età di soli trentasei anni.