Raffigurando Giunone e gli strumenti di zecca, una moneta romana racconta “live” la coniazione
di Francesco Billi | Il procedimento di coniazione della moneta è rimasto sostanzialmente inalterato dall’epoca antica fino all’alba dell’età moderna. Eppure, stano ma vero, nessun autore classico ci ha tramandato la sua descrizione.
Il denario di T. Carisius del 46 a.C.
Per questo motivo costituisce una testimonianza iconografica particolarmente preziosa il denario di epoca romana in argento del magistrato T. Carisius, battuto a Roma nel 46 a.C. (RRC, n. 464/2): praticamente una moneta destinata a raccontare ai posteri la propria genesi.
Sul rovescio, infati, sono rappresentate proprio le attrezzature essenziali tipiche delle zecche antiche e indispensabili per la coniazione.
Al centro compare una robusta incudine cilidrica sulla cui base superiore veniva incassato il conio di dritto.
L’oggetto conico sopra l’incudine, decorato da una ghirlanda, potrebbe raffigurare, invece, il conio di rovescio, detto anche “conio di martello”, poiché riceveva direttamente la martellata per imprimere l’immagine nel tondello metallico.
Il conio di rovescio, dunque, era un elemento libero posizionato di volta in volta sull’incudine prima della battitura di ciascun tondello.
Si può osservare, tuttavia, che l’oggetto effigiato su questa moneta potrebbe richiamare piuttosto un pileo, cioè il copricapo caratteristico del dio-fabbro Vulcano.
Tornando al procedimento di coniazione: ai lati dell’incudine sono raffigurati delle tenaglie e un martello.
Le tenaglie servivano per appoggiare il tondello metallico riscaldato sull’incudine e, dalle fonti epigrafiche, sappiamo che gli addetti a questa operazione erano chiamati suppostores.
Gli addetti al martello, invece, erano chiamati malliatores, e con il loro colpo imprimevano l’immagine delle due facce della moneta, non sempre nel modo più accurato.
Una moneta romana racconta “un’industria” all’avanguardia
Nell’antichità, dunque, la coniazione era particolarmente complessa e necessitava di manodopera specializzata, a cominciare dai signatores (o scalptores) che incidevano i conii direttamente in negativo.
E’ incredibile pensare come in assenza di dispositivi ottici (o, al massimo, con l’ausilio di rozze lenti) e con bulini artigianali si siano riusciti ad ottenere risultati simili per dettagli, proporzioni, profondità e bellezza.
L’iconografia del denario di Carisio appare coerentemente incentrata sulla tematica monetale anche nel tipo di dritto, dove è ritratta Iuno Moneta, ben identificata dalla legenda.
Il santuario di questa dea sorgeva sul Campidoglio, nei pressi della primitiva zecca di Roma (Livio VI, 20, 13).
L’epiteto moneta, cioè “ammonitrice”, pare fosse frequente per le dee poste a protezione dell’acropoli cittadina e il suo culto, particolarmente antico, potrebbe risalire alla fine del VI secolo a.C.
Nonostante tuttora non sia stato chiarito con certezza il rapporto fra il santuario e la zecca, sappiamo che il termine latino moneta passò a indicare il luogo della coniazione almeno da Cicerone (Philippicae 7, 1) e in seguito anche la moneta stessa (Ovidio, Marziale, ecc…).
Le fonti antiche, un tesoro da interpretare cum grano salis
Le interpretazioni travisate dei lessicografi tardo antichi e bizantini hanno contribuito ad alimentare incertezze e false teorie intorno a questa questione.
Ad esempio, per Isidoro di Siviglia (VII secolo) la dea “è chiamata Moneta poiché ammonisce che non vi sia frode né nel metallo, né nel peso” (Etymologicon 16, 18, 8).
Invece, l’enciclopedia Suida di XI secolo arriva a confondere il santuario con la zecca , affermando che i romani “veneravano Hera Moneta avendo stabilito di coniare nel suo tempio.”
Ovviamente trattasi di ipotesi prive di riscontri attendibili: in attesa che gli studiosi contemporanei svelino tutti i segreti di questa storia, il denario di Carisio rappresenta un esemplare racconto per immagini esplicativo dell’attività monetale a Roma e, in generale, nel mondo mediterraneo antico.