Ci sono oro, argento, rame, alluminio e stagno, ma c’è anche il piombo nelle monete: un metallo “vile” che, talvolta, è diventato protagonista
di Antonio Castellani | Il piombo fu probabilmente tra i primi metalli conosciuti ed utilizzati dall’uomo. Nel mondo antico, nonostante il largo impiego che se ne faceva per l’edilizia e l’idraulica, a causa della sua abbondanza e delle limitate possibilità che offriva nella fabbricazione di utensili, fu sempre considerato il più vile dei metalli.
Malleabile, a buon mercato e di facile fusione, esso costituì comunque un materiale ottimo per la realizzazione di oggetti paramonetali di largo uso e di scarso valore come tessere, amuleti, sigilli, bolle e, naturalmente, per la fabbricazione di monete false grazie al suo colore simile a quello dell’argento.
Anche le zecche ufficiali lo impiegarono spesso, assieme allo stagno, sia per realizzare le leghe di bronzo che per emissioni di necessità come quelle dei nomoi dell’Egitto tra il 183 ed il 353 circa oppure per emissioni ossidionali come le monete di Forte Urbano o di Lecco.
E non dimentichiamo che il piombo nelle monete si trova in molti esemplari di prove e progetti, realizzati per verificare il dettaglio di incisione dei coni non temperati applicando una pressione – soprattutto al torchio o alla pressa – molto minore di quella necessaria per imprimere le monete di serie.
Cecile Morrisson ha sostenuto la legittimità dell’emissione, come monete fiduciarie, di diverse monete bizantine di piombo ritenute in passato false, risultando coniate tra la fine del VI e l’inizio del VII secolo, in concomitanza con un momento particolarmente critico della storia dell’Impero.
A queste potrebbe ricollegarsi, soprattutto per il periodo d’emissione, la serie delle cosiddette tessere plumbee (da alcuni ritenute monete) dei vescovi di Luni, città che ricadeva anch’essa sotto l’autorità (seppure ormai formale) di Bisanzio.
Il Corpus Nummorum Italicorum le indica di mistura, ma in realtà esse sono di piombo.
Nel periodo dell’aes grave (I metà del III secolo a.C.) le grandi monete fuse hanno registrato alle analisi un contenuto di piombo del 22-25%, fatto questo che le avrebbe rese inadatte ad essere reimpiegate per scopi diversi da quello di moneta a cui erano destinate.
Una buona percentuale di piombo è inoltre presente in tutte le monete romane di bronzo: l’8% nell’asse onciale, l’11,14 nella semionciale e tale si mantiene fino all’Impero quando scende anche al di sotto dell’1%. Ma poi, durante la crisi sotto Gordiano II, Filippo e Claudio Gotico, la percentuale sale al 30%.
Con la riforma di Aureliano si registrano solo tenui presenze di piombo che vanno dal 2 al 3%. In sostanza, mentre durante la Repubblica la presenza del piombo sembra obbedire a motivi di carattere tecnico (il piombo aveva la proprietà di abbassare il punto di fusione e rendere il bronzo più malleabile), nell’età imperiale il suo impiego appare legato ad interventi di carattere inflazionistico. Sono infine noti anche dei pesi monetari in piombo, di varie epoche ed origini, e il piombo nelle monete venne usato addirittura in India per numerose emissioni.