Ecco la seconda parte (leggi qui la prima) del saggio sull’augustale di Federico II di Svevia, in cui sono svolte considerazioni culturali e letterarie collegate a questa famosa moneta, con una serie di interessanti notizie sul progetto di coniazione di un nuovo augustale in Sicilia nel 1461 e molto altro ancora. L’augustale di Federico II Stupor Mundi, dunque, ha ancora molto da svelarci.
Il simbolismo medievale, l’aquila e Federico II di Svevia
Secondo la lezione di Jacques Le Goff, per studiare il concetto medievale di simbolo, è necessario partire dall’etimologia della parola: simbolo deriva dal greco sùmbolon che presso i Greci identificava un segno di riconoscimento, costituito dalle due metà di un oggetto diviso tra due persone.
Nel pensiero medievale, ogni oggetto materiale era considerato come la raffigurazione di qualcosa che gli corrispondeva su un piano più elevato e, in questo modo, ne diventava il simbolo. Nel medioevo, nominare una cosa era già spiegarla. Isidoro di Siviglia lo aveva già preannunciato e, dopo di lui, l’etimologia fiorisce nel medioevo come scienza fondamentale. Nominare è conoscere, è possedere le cose, le realtà.
L’augustale di Federico II di Svevia, moneta “proto rinascimentale”
Un grande serbatoio di simboli, nell’età di mezzo, fu la natura. Minerali, vegetali, animali sono tutti simboli: fra i minerali le pietre preziose, i cui colori colpiscono evocando i miti della ricchezza; fra i vegetali le piante e i fiori citati nella Bibbia; fra gli animali le bestie esotiche, leggendarie per forza o coraggio.
In particolare il simbolo dell’aquila, che noi possiamo ammirare su una faccia dell’augustale di Federico II, divenne ancora più ricco nel medioevo: già considerata uccello divino ed attributo di Giove in antichità, già insegna delle legioni romane e simbolo dell’apoteosi degli imperatori dell’antica Roma, nel medioevo assurse a simbolo di dominio, potere e forza. Addirittura sotto Federico II diventa simbolo dello Stato, impetrato da Federico II e, dunque, tutt’uno con l’imperatore!
Ecco perché ho ritenuto, forse in modo “provocatorio”, di riferire il dritto dell’augustale alla faccia recante l’aquila-Federico II e il nome dell’imperatore.
Particolare del mosaico del soffitto della Sala di re Ruggero, Palazzo dei Normanni, Palermo
In relazione a quanto detto in merito alla “divinizzazione” di Federico II ed a riguardo della particolare importanza che nel medioevo ebbero i simboli, essendo pacifico che l’aquila federiciana è qualcosa di più che il simbolo di Federico II, essendo tutt’uno con Federico II medesimo, ecco cadere l’apparente incongruenza che caratterizza l’augustale, consistente nell’avere il nome dell’imperatore al rovescio e non al dritto.
Infatti il dritto della nostra moneta aurea è proprio la faccia con l’aquila-Federico II e la legenda + FRIDE / RICUS, mentre il rovescio è la faccia con l’immagine dell’Imperatore, che è appunto un’immagine, un simbolo, a differenza dell’aquila che, come visto, è l’Imperatore in persona.
A ben vedere anche Gabriele Lancillotto Castello, Principe di Torremuzza, maestro della zecca di Palermo nel XVIII secolo, era dell’opinione che il dritto dell’augustale fosse proprio la faccia con l’aquila. In questo contesto è interessante rammentare che, come fatto notare da Lucia Travaini, Manfredi, figlio di Federico II, si fece ritrarre su un tarì come uomo che nasce da un’aquila, filius aquilae per l’appunto.
Un notaio coevo di Federico II, Riccardo da San Germano (l’odierna Cassino) descrisse la nuova moneta aurea federiciana così: “[…] habens ab uno latere caput hominis cum media facie, et ab alio aquilam”. Qualche autore ha messo in evidenza che il cronista parla di “caput hominis” e non di “caput imperatoris” per argomentare che non trattasi del ritratto dell’imperatore, ma di un ritratto del tutto impersonale, in quanto, se così fosse stato, Riccardo avrebbe detto “caput imperatoris”. Altri studiosi hanno, però, fatto notare che si tratta della descrizione di un notaio e che la voce “homo” si riferisce senz’altro all’imperatore e non deve essere interpretata come “quidam” o “aliquis homo”.
Anche Giovanni Villani, cronista fiorentino del XIV secolo, parlando degli augustali così si espresse: “[…] e dall’uno lato dell’agostaro improntato era il viso dello ‘mperadore a modo di Cesari antichi e da l’altro una aguglia, e era grosso, e di carati XX di fine paragone, e questo molto ebbe grande corso al suo tempo”.
Anche il cronista fiorentino Giovanni Villani parla degli augustali
Sulla questione, Lucia Travaini ha affermato: “[…] il lato con il busto-ritratto tecnicamente fu battuto di sicuro con il conio di incudine: il maggiore rilievo di questo lato richiedeva, infatti, il conio inserito nell’incudine, più protetto. Certamente poi attraverso il busto all’antica Federico voleva manifestare ai sudditi la sua maestà, ma resta il fatto dell’identificazione personale tra Federico e l’aquila”.
In mancanza di documentazione certa, non si può essere persuasi che la faccia con il busto dell’imperatore sia certamente riferibile al conio di incudine: ciò sarebbe plausibile nel caso di moneta avente diametro di 30 o 40 millimetri, ma non è certo, in senso assoluto, nel caso dell’augustale, che ha un diametro variabile tra 19 e 23. E’ infatti facilmente dimostrabile come la forza occorrente per coniare compiutamente una moneta cresca secondo legge quadratica all’aumentare della diametro del tondello: ergo per piccoli diametri non è detto che il tipo maggiormente rilevato fosse sempre e comunque appannaggio del conio di incudine.
L’augustale federiciano nella letteratura medievale
Il Contrasto di Cielo d’Alcamo, rinomato per l’incipit “Rosa fresca aulentissima ch’apari inver’ la state”, è il dialogo tra un corteggiatore intraprendente e una donna che dapprima ostenta nei suoi riguardi superiore sufficienza, salvo, in ultimo, cedere allo spasimante.
Ad un certo punto la dama afferma a mò di sfida: “ Ke ‘l nostro amore ajùngasi, non boglio m’atalenti / Se ci ti trova pàremo cogli altri miei parenti,/ guarda non t’ari[g]olgano questi forti cor[r]enti./ Como ti seppe bona la venuta, / consiglio che ti guardi a la partuta”.
Al che il corteggiatore audacemente ribatte: “Se i tuoi parenti trova[n]mi, e che mi pozzon fare? / Una difensa mèt[t]oci di dumil’agostari: / Non mi toc[c]ara pàdreto per quanto avere ha ‘n Bari. / Viva lo ‘mperadore, graz[ì] a Deo! / Intendi, bella, quel che ti dico eo?”.
E quindi la pronta risposta della corteggiata, che non tarda ad arrivare: “Tu me no lasci vivere né sera né maitino. / Donna mi so’ di pèrperi, d’auro massamotino. / Se tanto aver donàssemi quanto ha lo Saladino, / e per ajunta quant’ha lo soldano, / toc[c]are me non pòteri a la mano”.
Nomisma o iperpero di Manuele I Comneno (prima metà del XII secolo), 4,20 grammi; dinar almoravide (marabottino, massamotino), zecca di Aghmat (Marocco), XI secolo, 4,15 grammi
La corteggiata, quando dice “Donna mi so’ di pèrperi, d’auro massamotino”, si riferisce ai nummi tesoreggiati dalle ricche famiglie appartenenti all’antica nobiltà meridionale, ovvero iperperi bizantini e dinari almoravidi (in arabo al-Murabitoun, da cui morabettini, morabitini, marabottini, massamotini…), che nell’XI e XII secolo erano le monete auree per eccellenza nel bacino del Mediterraneo.
Rapportando tale affermazione con quella dello spasimante, che si vanta di poter disporre tranquillamente niente meno che di duemila augustali di Federico II, risalta la frecciata della discendente di antica nobiltà nei confronti del nuovo arricchito, come argutamente ha notato Lopez settantuno anni fa.
Il tentativo di un vicerè di far rinascere l’augustale
L’augustale di Federico II era solo un lontano ricordo quando, il 21 maggio 1461, il vicerè di Sicilia Giovanni Moncayo promosse l’ennesima riforma monetaria nell’isola, che era perennemente attanagliata da cronica penuria di monete d’oro e d’argento. Dopo lunga consultazione col Sacro Regio Consiglio, coi Maestri Razionali, col Consultore, nonchè dopo sedute tecniche col Maestro di prova Stefano Crisafi, col gabelloto della zecca di Messina Giovanni del Judice, col perito Pietro Stornello ed anche con mercanti ritenuti esperti in fatti monetari, la riforma vide luce prevedendo, tra le altre cose, la battitura di nuove monete auree denominate augustali.
I nuovi augustali, però, nel progetto del Moncayo erano sensibilmente diversi dall’augustale di Federico II: da una libbra d’oro se ne dovevano ottenere 90, dunque ciascuno di essi doveva pesare 4 trappesi (3,52 grammi), con un titolo o, per dirla col Moncayo, una “perfezione” pari a quella del ducato di Venezia, dunque oro puro a 24 carati.
Il valore nominale del nuovo augustale doveva essere di un carlino (mezzo tarì) superiore a quello del ducato veneto: siccome quest’ultimo valeva 8 tarì, il nuovo augustale aveva un nominale di 8 tarì e 10 grani, pari a 17 carlini. Con ogni probabilità quanto appena detto aveva l’obiettivo di scongiurare l’esportazione dal Regno della nuova moneta.
Il fiorino di Firenze e il ducato di Venezia, le due monete internazionali del medioevo
L’ordine di coniazione del Moncayo ad un certo punto suona così: “la forma di lu dictu Augustali sia di la ampliza di lu florentinu, largulo più potissi viniri, ad effectuki non si poza trahiri for di regnu et per altri cugnu et forma stamparisi et formari”. Dunque il nuovo augustale doveva avere uno spessore pari a quello del fiorino di Firenze, e comunque largo il più possibile, al fine di scongiurare che potesse essere esportato dalla Sicilia e reimpresso con altri coni.
Per quanto riguarda la descrizione degli augustali il Moncayo previde: “[…] quesint nominanda Augustales ad arma Sicilie et Aragonum, videlicet ex una parte aquila cum superscriptione: signum crucis, Johannes dei gracia Rex Sicilie; ex parte vero altera arma Aragonum cun superscriptione: ac Athenarum et Neopatrie dux”.
Tale riforma monetaria siciliana attesta che nella seconda metà del XV secolo le monete più accreditate sui mercati del Mediterraneo erano il ducato di Venezia e il fiorino di Firenze, conosciute ed apprezzate ovunque, tanto da essere prese come riferimento per la nuova monetazione aurea siciliana. In secondo luogo, si deve notare che il nuovo augustale, dovendo avere le stesse caratteristiche delle monete auree fiorentina e veneziana, rappresenta il segno del passaggio del sistema monetario siciliano nell’area monetaria della lira, a cui non era mai appartenuto non essendosi mai coniati in Sicilia denari intesi come 240a parte della lira (riforma monetaria di Carlo Magno: 1 lira = 20 soldi = 240 denari) .
Accanto alla nuova moneta aurea, la riforma monetaria siciliana del 1461 dispose anche la battitura di nuove monete d’argento, i carlini o pierreali, di ottimo argento al titolo di 850 millesimi e pesanti 2 sterlini (2,64 g).
Carlino/pierreale di Giovanni d’Aragona, zecca di Messina, 2,64 grammi
Una volta emanato l’ordine di coniazione, la zecca di Messina approntò i coni e batté alcuni pezzi di prova (Trasselli ha parlato di 12 pezzi di prova in oro, senza indicare la fonte dell’informazione), che furono inviati al re Giovanni per l’approvazione. Giovanni d’Aragona non approvò mai le prove dell’augustale, tanto è vero che una simile moneta non risulta annoverata in collezioni pubbliche o private e non risulta essere mai transitata in aste numismatiche.
Quale fu il motivo del rigetto? La risposta è semplice: il nome “augustale” rimandava direttamente a Federico II di Svevia ed alle sue Costituzioni di Melfi, ritenute sacre in Sicilia, mentre Giovanni d’Aragona, non essendo imperatore, non poteva fregiarsi del titolo di “augusto”; inoltre l’augustale della riforma monetaria del vicerè Moncayo non solo recava sul dritto l’aquila sveva, assurta a preciso simbolo della Sicilia, ma le legende del dritto e del rovescio, come visto, recavano riferimenti esclusivamente al regno di Sicilia e non pure a quello d’Aragona, cui peraltro il re Giovanni teneva moltissimo. L’augustale del Moncayo si veniva a configurare, dunque, come un manifesto politico all’insegna del separatismo siciliano, fatto che difficilmente sarebbe potuto passare inosservato alla corte aragonese.
A riprova di ciò qualche anno dopo, con bando del vicerè Durrea dato a Messina il 24 gennaio 1466, venne prevista la battitura di altre monete d’oro nella zecca peloritana a nome di re Giovanni, ciascuna avente valore nominale di 20 carlini (o 10 tarì) ed appellata “reale di Sicilia”, monete conosciute e recanti bene in evidenza il titolo di re d’Aragona.
Reale di Giovanni d’Aragona, zecca di Messina, 3,94 grammi
E l’aquila degli Hohenstaufen spiccò il volo…
Strano ma vero, l’aquila staufica che ammiriamo sull’augustale di Federico II, moneta dell’Italia del Sud per eccellenza, la ritroviamo, ad un certo momento, sui grossi aquilini battuti a Merano nella seconda metà del XIII secolo.
Grosso aquilino della zecca di Merano (MARANO al rovescio)
Le motivazioni alla base di questa migrazione iconografica le ha spiegate Helmut Rizzolli, professore onorario all’Università di Innsbruck e studioso di storia monetaria medievale. L’aquila dei grossi aquilini di Merano è la stessa dell’emblema degli Hoenstaufen e, tra l’altro, somiglia molto a quella che possiamo ammirare sul denaro d’argento emesso dalla zecca di Messina negli anni 1254-1258.
Questa parentela prettamente stilistica è supportata da documenti ufficiali? La risposta è affermativa e Rizzolli l’ha potuta fornire attraverso lo studio di una ricca documentazione sui conti della zecca meranese, rinvenuta nell’Archivio dell’Università di Innsbruck.
I documenti ci dicono che Mainardo II, appartenente alla casata dei Gorizia e che da qualche storico è stato definito “Padre del Tirolo”, reggente del Tirolo assieme al fratello Alberto, nel 1259 sposa la vedova di Corrado IV, Elisabetta di Wittelsbach.
Denaro della zecca di Messina, a nome di Corradino di Svevia
E’ un matrimonio importante e vantaggioso per entrambi. Elisabetta è la madre di Corradino di Svevia, che sarà decapitato a Napoli nel 1268, dopo la battaglia di Tagliacozzo, dunque Mainardo II, con questo matrimonio, si apparenta con gli Hohestaufen, divenendo quasi il capo della casata proprio dopo la morte di Corradino.
Altro dato significativo è che il grosso aquilino di Merano è coniato in tempi successivi al matrimonio di Mainardo II con Elisabetta di Wittelsbach, dunque dopo il 1259. Mainardo decide di imprimervi l’aquila imperiale degli Hoenstaufen in quanto è adesso imparentato con tale casato, che vanta il diritto di battere moneta, quando egli, si badi, non ha ancora lo ius cudendi. In questo modo riesce a battere moneta a Merano in qualità di componente, ancorché acquisito, della famiglia. Inoltre, devesi notare che egli non mette mai il proprio nome sui grossi meranesi, limitandosi alla legenda COMES TIROL, Conte del Tirolo, proprio perché non godeva in prima persona del diritto di battere moneta.
Il grosso aquilino di Merano, del valore di 20 denari piccoli, piacque molto e risultò moneta bene accolta dalla popolazione, assumendo anche un ruolo politico:assurse a moneta tipicamente ghibellina, quasi fosse una moneta di partito!
Dunque, a ben vedere, è lecito affermare che l’aquila imperiale sull’augustale di Federico II, (e sui mezzi augustali) fortemente voluti dallo Stupor mundi, da Messina e Brindisi ha spiccato il volo ed è trasmigrata a Nord, fino alle Alpi ed a Merano, continuando a caratterizzare la monetazione argentea dell’Italia settentrionale fino al XV secolo.
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