“Desideriamo che in ogni parte del nostro Regno molti diventino savi e accorti attingendo alla fonte delle scienze e a un vivaio di saperi, e che essi, resi avveduti grazie allo studio e all’osservazione del diritto, servano il giusto Dio, al cui servizio sono tutte le cose, e siano graditi a noi per il culto della giustizia, ai cui precetti ordiniamo a tutti di obbedire. Disponiamo perciò che nell’amenissima città di Napoli vengano insegnate le arti e coltivati gli studi connessi con ogni professione, così che i digiuni e gli affamati di sapere trovino nel nostro Regno di che soddisfare i propri desideri e non siano costretti, per ricercare la conoscenza, a peregrinare e a mendicare in terra straniera”.
Con queste parole Federico II di Svevia, in una lettera del 1224, ha sancito la fondazione dello Studium napoletano, da cui discende direttamente l’odierna Università partenopea che, dal 1992, è intitolata a Stupor Mundi. Quest’anno, quindi, ricorre esattamente l’ottavo secolo dalla fondazione dell’Università di Napoli, importante ricorrenza cui MEF e IPZS hanno reso omaggio mediante la coniazione di una moneta commemorativa d’argento da 5 euro modellata e incisa da Uliana Pernazza.
Nasce a Jesi nella Marca anconitana, il 26 dicembre del 1194, Federico II: la madre è Costanza d’Altavilla, il padre Enrico VI Hohenstaufen
Prendendo spunto da tale evento numismatico, sembra appropriato celebrare Federico II di Svevia con un approfondimento sull’augustale, magnifica moneta d’oro medievale, ricercata dai collezionisti, da sempre molto costosa, ideata e fatta battere per espressa volontà del grande imperatore svevo.
Federico II, un imperatore intellettuale
A differenza dei predecessori Federico II ritenne che il centro del potere non fosse più l’Impero, bensì i Regni, quali soli organismi in grado di realizzare una classe burocratica di funzionari del re, scevra da qualsiasi legame con le forze particolaristiche di feudi e comuni, quindi in grado di dominare e guidare la società.
Conseguentemente egli perseguì l’ambizioso progetto di formare nell’Italia meridionale uno Stato diverso, moderno, che attraverso accentramento del potere ed efficienza burocratica fosse in grado di minimizzare particolarismi e disfunzioni. E’ evidente che con tali premesse, al contrario di quanto avvenne nell’Italia settentrionale, in quella meridionale non vi fu posto per le autonomie comunali.
Federico II in trono, in un codice miniato conservato nel Museo diocesano di Salerno
Federico II creò nel Meridione quello che molti storici definiscono “il primo Stato moderno d’Europa”, all’insegna di un potere centralizzato. Ebbe indubbie capacità politiche ed intellettuali: fu un uomo curioso, scrisse liriche d’amore e un trattato di falconeria, fu mecenate per intellettuali di ogni provenienza, mostrò interesse per le scienze e la matematica, incentivando la traduzione e lo studio di opere arabe, latine e greche.
Nel pensiero dello Stupor Mundi la cultura giocò anche un ruolo politico, nell’intento di riacquisire in tutto il Regno autonomia dall’egemonia ecclesiastica. L’interpretazione più suggestiva del concetto di sovranità di Federico II è stata proposta nel 1927 da Ernst Kantorowicz, nel suo ormai classico Federico II imperatore (traduzione italiana Garzanti, Milano, 1976). L’autore tedesco, basandosi sui contenuti del proemio delle Costituzioni di Melfi, ha individuato l’eccezionalità della concezione imperiale federiciana in primo luogo nell’idea di diretta discendenza divina dell’impero e dello Stato siciliano.
Busto di Federico II, con fattezze giovanili, conservato al Museo di Capua, e incisione ottocentesca derivata dalla stessa scultura
La discendenza diretta da Dio della sovranità temporale è mediata dalla Iustitia. Secondo Federico l’imperatore è fonte della Iustitia nello Stato, dunque non solo colui che tutela il diritto, ma anche e soprattutto colui che crea il diritto, e ne è mediatore e portatore. L’analogia con Cristo, strumento di grazia divina, appare in tutta evidenza.
Kantorowicz colse nell’idea federiciana di sovranità un singolare intreccio di elementi medievali e moderni: gli elementi medievali risiedono nel concetto di Impero, nell’idea di imperatore, custode di Pax e Iustitia, mentre quelli moderni, rivoluzionari, si possono cogliere nella forza di uno Stato efficiente e del tutto indipendente dalla Chiesa.
Un’artistica moneta aurea di grande successo
Federico II attraverso le Costituzioni di Melfi mise in atto una profonda ristrutturazione dello Stato. Nelle Costituzioni venne prevista la coniazione di una nuova moneta aurea: “MCCXXXI Mense Dicembris Nummi aurei, qui Augustales vocantur, de mandato Imperatoris in utraque Sicilia Brundisii, et Messanae cuduntur”.
Il nome “augustale” è dovuto al fatto che Federico II, avendo titolo di imperatore, poteva fregiarsi anche del titolo di Augustus. Gli augustali furono coniati in abbondanza nelle due zecche di Messina e di Brindisi, le uniche due officine rimaste attive nel Regno di Sicilia al culmine del processo di centralizzazione voluto dallo Staufen. Mentre la disposizione di battitura, come visto, fu del dicembre 1231, la produzione dei nuovi nummi aurei prese il via nel giugno dell’anno successivo.
Tarì coniato sotto re Guglielmo (1154-1166), 0,99 grammi
Quello di Federico II fu un paziente programma di riforma della moneta dello Stato che aveva come obiettivo la battitura di una moneta aurea a maggiore contenuto d’oro, dunque più pregiata, del tarì (che aveva peso variabile e titolo dell’oro pari a circa 16 carati).
Ad ogni buon conto, l’augustale non ebbe il ruolo di sostituire ed eliminare il tarì dal circolante, bensì la funzione di moneta stabile nel peso e nella lega che, a differenza dei tarì di peso variabile, che perciò dovevano essere spesi a peso, poteva essere spesa a numero, senza l’ausilio di bilance, con evidenti vantaggi per il commercio.
Denaro a nome di F[RIDERICVS] . IMPERATOR, zecca di Messina, 0,80 grammi
Lucia Travaini ha avanzato anche un’altra ipotesi circa le motivazioni che portarono ad ideare e realizzare l’augustale e la sua metà: una ripicca di Federico II nei confronti di papa Gregorio IX, che aveva osato occupare Gaeta, possedimento dello Staufen, e progettare nel 1229 la battitura ivi di una moneta recante il proprio ritratto, che comunque non fu mai realizzata. Si capisce bene come un simile progetto avesse un’enorme significato politico e, a parere della studiosa, Federico II, una volta riappropriatosi di Gaeta, volle con l’augustale sfruttare a proprio favore la geniale idea di Gregorio IX.
Ma adesso passiamo alla descrizione di queste bellissime monete, non senza premettere che a parere di chi scrive il dritto degli augustali è la faccia in cui fa bella mostra di sé l’aquila sveva, per le motivazioni che saranno esplicitate nel prosieguo.
Augustale della zecca di Messina
Al dritto l’aquila sveva, che secondo quanto dirò si compenetra nell’Imperatore Federico II, di tre quarti ad ali spiegate e capo rivolto a destra, con la legenda perimetrale: (croce patente) FRIDE / RICVS; al rovescio il busto di profilo dell’Imperatore, non fisionomico, paludato e col capo cinto d’un serto d’alloro, con nel giro la legenda IMP ROM / CESAR AVG. Da notare la “libertà” con cui l’incisore dei coni ha compilato la legenda: FRIDERICVS e CESAR in luogo di FEDERICVS e CAESAR.
Le legende del dritto e del rovescio sono un tutt’uno, il che dimostra che dritto e rovescio della moneta fossero stati concepiti l’uno quale complemento dell’altro, ed è in tutto simile a quella che si legge su diplomi, bolle e sigilli: FRIDERICUS DEI GRATIA ROMANOR[UM] IMPERATOR ET SEMP[ER] AUGUST[US] ET REX SICIL[IAE]: a mio modesto avviso anche ciò è indice di quale sia il dritto e quale il rovescio della moneta in questione.
Augustale della zecca di Brindisi
Per quanto riguarda la zecca di produzione, Heinrich Kowalski nel 1976 ha chiarito che è possibile riconoscere gli augustali ed i mezzi augustali battuti a Brindisi dalla presenza di due globetti a fianco della testa dell’aquila, l’uno a sinistra, l’altro a destra della testa del rapace. Le monete senza globetti sono quindi ascrivibili alla zecca di Messina. Il prototipo dell’augustale è rinvenibile negli aurei di Ottaviano Augusto, rifacendosi chiaramente ad un ideale classico.
Aureo di Ottaviano Augusto
Sono monete aventi diametro variabile tra 19 e 23 mm con un peso variabile tra 5,19 e 5,30 grammi di lega complessa, avente la seguente composizione: (1) oro 20,5 carati (circa 854 millesimi); (2) argento 2,63 carati (circa 110 millesimi); (3) rame per il resto fino a 24 carati (circa 36 millesimi).
L’augustale conteneva, dunque, quasi 4,5 grammi d’oro puro, pesava 6 tarì-peso (trappesi; 1 trappeso = 0,8815 grammi), ovvero un quinto di oncia in peso, ed aveva un valore di un quarto di oncia di conto siciliana da 30 tarì, ovvero 7,5 tarì. Si noti che anche il tarì era nato come quarta parte (quartiglio) del dinar, moneta aurea musulmana, diffusissima nell’area mediterranea. I mezzi augustali, nettamente più rari degli augustali, sono caratterizzati da un diametro di 16 millimetri con un peso di circa 2,50-2,60 grammi.
Per il fatto che la composizione della lega delle monete auree volute da Federico II è molto simile a quella dell’oro che affluiva sulle sponde del Mediterraneo dal cuore dell’Africa, dalle sabbie aurifere del Sudan e dell’attuale Ghana, mediante le carovaniere transahariane, Roberto Sabatino Lopez fu dell’opinione che alla base della produzione di tali monete vi fossero gli ingenti quantitativi di “oro di pagliola” che a quel tempo arrivavano copiosi in Sicilia dai porti commerciali dell’Africa settentrionale, in virtù di una bilancia commerciale favorevole, ma anche dal nord dell’Italia, attraverso l’azione di banchieri e mercanti genovesi.
Mezzo augustale della zecca di Messina (in alto) e della zecca di Brindisi (in basso)
Altri studiosi hanno confutato tale affermazione asserendo che l’oro di pagliola, in realtà, avesse un titolo molto variabile, compreso tra 20 e 22 carati, dunque non sempre pari ai 20,5 carati che contraddistinguono l’augustale.
Probabilmente ha ragione Lopez: infatti la particolare lega metallica, complessa, caratterizzante le belle monete auree federiciane, come visto annoverava non solo oro e rame, ma anche argento, proprio come nell’oro di pagliola. Ovviamente nelle zecche di Messina e Brindisi il personale deputato non si limitava a liquefare semplicemente le pagliuzze d’oro africano, creando così i presupposti affinché il titolo dell’oro, in seno alla lega, fosse pari ai noti 20,5 carati.
Come ben ha spiegato David Abulafia, nel decennio che precedette l’avvio della coniazione degli augustali, Federico II fece in modo che il Regno di Sicilia divenisse un centro di accumulazione dell’oro straniero. È certo, infatti, che alla fine del secolo XII l’amministrazione normanna avesse una sezione specificamente deputata alla gestione dei tributi africani in metallo prezioso grezzo e monetato. E nel terzo decennio del XIII secolo, ben prima della coniazione dell’augustale, Federico II intese garantire un flusso incessante di oro in ingresso nel Regno: è nota una sua disposizione che obbligava i commercianti veneziani, e non solo, a portare nel regno solo monete auree.
Al loro arrivo erano obbligati a cambiare le monete d’oro con argento o con monete d’argento, per poi commerciare all’interno del regno utilizzando esclusivamente il metallo bianco. Le grosse partite di oro in ingresso nel Regno di Sicilia erano acquistate dai funzionari regi presso le dogane, e quindi destinate ad essere accumulate nell’erario. Letta in questa cornice, dunque, la corrispondenza della composizione chimica dell’oro in polvere e pagliuzze africano con quella dell’augustale costituirebbe la risultante di una lunga storia di accumulazione dell’oro nell’erario siciliano.
L’asse dei coni di queste monete è sempre di 180°, e tale preciso allineamento denuncia l’ausilio di coni fissi a pinza, già largamente utilizzati per la monetazione tardoromana e bizantina, oppure di coni incavigliati. Questi ultimi, noti agli Arabi almoravidi fin dal XII secolo, sono costituiti da una coppia di coni liberi dei quali quello di incudine è dotato, a lato della parte incisa, di protuberanze simmetriche, perfettamente allineate con altrettante cavità esistenti sul conio di martello.
Come noto, si conosce una tipologia alquanto variata di tali monete: trattasi di tre augustali e di un mezzo augustale, che recano al dritto l’aquila in posizione frontale, col capo rivolto a sinistra, e al rovescio il capo dell’imperatore, con corona a raggi trifogliati. I tre esemplari di augustale di questo tipo sono conservati, rispettivamente, nel Museo di Vienna, nella collezione del re Vittorio Emanuele III presso il Museo Nazionale Romano, e a Dresda; il mezzo augustale, invece, è annoverato presso la Collezione Fassio.
Augustale di tipo diverso, con capo coronato di corona a raggi trifogliati
Alcuni studiosi (pochi per la verità) hanno messo in dubbio l’autenticità di siffatti pezzi, mentre molti altri, ritenendoli autentici, hanno avanzato le più disparate ipotesi di coniazione: coniazione avvenuta negli ultimi anni di regno di Federico II; coniazione postuma, durante il regno di Manfredi, per rivendicarne la legittimità di governo nei confronti di Carlo d’Angiò; prove della monetazione definitiva per le fattezze giovanili dell’Imperatore. Kowalski prima e, successivamente, Grierson e Travaini hanno, invece, proposto una quarta ipotesi: progetto di moneta sotto Enrico VII per Pisa del 1311.
Per quanto riguarda la diffusione degli augustali, si deve considerare che i coni angioini (il reale e il carlino-saluto d’oro) non fecero altro che perpetuarne le caratteristiche metrologiche, imponendo che questi ultimi fossero “in tenuta et pondere, in quibus facti fuerunt augustales et medii augustales tempore quondam imperatoris”.
Addirittura Carlo I d’Angiò, con decreto del 13 agosto 1278, dispose che a qualsiasi funzionario che ritenesse la nuova moneta, il reale, inferiore in valore all’augustale, fosse tagliata la mano e che, nel caso si fosse trattato di un privato, dovesse essergli impresso a fuoco sul viso un carlino.
Reale di Carlo I d’Angiò
In Italia l’augustale fu moneta diffusa e notissima, stando alle testimonianze di Guido Bonatti e di Giovanni Villani; è noto anche un documento risalente al 1278 da cui si evince che della somma delle entrate regali provenienti dalle province facevano parte anche 9464,5 once d’oro in augustali. Per risalire con esattezza al numero di augustali equivalenti a tale quantità di once d’oro, tuttavia, bisognerebbe sapere se il valore in once si riferisce al peso o al valore.
Nell’ipotesi che si riferisca al peso, sappiamo che ogni augustale pesa 6 trappesi, ovvero la quinta parte di un’oncia-peso, dunque 9464,5 once in peso corrispondono a 47.322,5 augustali; nel caso si riferisca al valore, sappiamo che l’augustale corrisponde alla quarta parte dell’oncia, quindi 9464,5 once in valore equivalgono a 37.858 augustali. Si tratta, in ogni caso, di un numero di pezzi rilevante, viepiù per il fatto che il documento che ne parla risale al 1278, epoca segnata già da tempo dalle monete auree angioine.
Ed ancora sappiamo che Carlo I d’Angiò nel 1286 contrasse un mutuo con la Chiesa, che sarà successivamente estinto in fiorini, augustali e carlini, e documenti riferibili agli anni 1274-1278 tramandano che la popolazione era usa conteggiare in augustali. Addirittura il termine augustale lo ritroviamo nei documenti fino al XV secolo, utilizzato per indicare i reali angioini come pure i pierreali d’oro battuti a Messina dagli aragonesi, oltre che nei coevi trattati di aritmetica e nei libri di mercatura.
Carlino aureo di Carlo I d’Angiò, detto anche saluto d’oro, per la scena dell’Annunciazione incisa al rovescio
In un tesoretto ritrovato nel 1925 nei pressi delle Logge dei Banchi di Pisa, occultato verso il 1266, erano presenti 16 augustali (di cui 13 afferenti alla zecca di Messina) e un mezzo augustale (zecca di Brindisi) accanto a ben 116 tarì di epoca sveva ed a 94 fiorini di Firenze. Dunque resta accertato che in Italia l’augustale di Federico II di Svevia conobbe notevole diffusione. Si può dire la stessa cosa a livello internazionale? La risposta è affermativa, in base alle seguenti informazioni:
- il 1° dicembre 1270 Carlo I d’Angiò dispose che nella zecca di Messina si fondessero lingotti d’oro per produrre augustali per il re di Francia Filippo III;
- nel 1265 un mercante senese alla fiera di Troyes annotò che al cambio l’augustale valeva 11 soldi provenzali;
- TitusTobler, nella sua opera Zwei Bucher Topographie von Jerusalem und Umgebung, pubblicata a Berlino nel 1853, ci informa di rinvenimenti di augustali verificatisi addirittura in Siria;
- il 21 luglio 1254 troviamo annoverati augustali, assieme a bisanti ed altre monete d’oro, in Inghilterra nel tesoro aureo del re Enrico III.
In questo contesto devesi notare che è stata documentata una grande varietà di coni, utilizzati per battere gli augustali: Kowalski ne ha censiti ben 108 per il dritto con l’aquila-Federico II e 75 per il rovescio con il profilo imperiale laureato, ipotizzando una tiratura complessiva compresa tra mezzo milione e un milione di esemplari.
Per quanto riguarda, invece, gli esemplari conosciuti giunti fino a noi, a Kowalski erano noti 334 augustali, mentre in anni più recenti Grierson e Travaini ne hanno censiti ben 450. Per conseguenza dovettero essere tanti gli incisori dei coni di queste prestigiose monete, anche se la letteratura tramanda solo il nome del messinese Balduino Pagano.
Un’ulteriore testimonianza della grande diffusione dell’augustale come moneta internazionale si rinviene nei molti falsi d’epoca che sono giunti fino a noi, prodotti sia nella Penisola che all’estero. Realizzati con un’anima di rame rivestita con lamina d’oro, oggi sono chiaramente identificabili per via della parziale scomparsa della sottile lamina aurea nei punti più alti dei rilievi, maggiormente soggetti a strofinio da contatto.
Due di questi falsi sono annoverati ex Collezione reale: entrambi sono del tipo con busto laureato, hanno un diametro di circa 18 millimetri e un peso fortemente calante, rispettivamente di 3,79 e 2,75 grammi, com’era logico aspettarsi in quanto il peso specifico del rame (8,90 grammi per centimetro cubo) è di gran lunga più basso di quello dell’oro (19,33 grammi per centimetro cubo).
Ad ogni buon conto il successo dell’augustale, che è indubbio, non è paragonabile con quello delle monete auree di oro puro che furono il fiorino di Firenze (1252) prima e il ducato d’oro veneziano più tardi (1282), probabilmente a causa dell’elevatissimo titolo di queste due ultime monete ma, soprattutto, perché l’augustale e la sua metà, al contrario del fiorino e del ducato, non furono supportati da un’economia fiorente e in espansione, contraddistinta da intraprendenti banchieri e mercanti.
Il busto marmoreo di Federico II conservato nel Museo Civico di Barletta (a sinistra) e la scultura ottocentesca di Emanuele Caggiano sulla facciata di Palazzo reale a Napoli
La rinascita del ritratto nel Medioevo
La rinascita della concezione di vita e di stato di tipo laico, fortemente voluta da Federico II, artisticamente comportò un progressivo riaccostarsi a soggetti desueti: il ritratto individuale fu uno di questi. Da secoli il ritratto personale era scomparso da ogni manifestazione artistica, in quanto esistevano solo tipi iconografici di determinati soggetti. Ad esempio gli imperatori germanici erano tutti effigiati assisi in trono, coronati, con globo e scettro in mano: la stessa immagine, del tutto impersonale, era attribuibile di volta in volta a Ottone I, a Ottone II ecc.
L’immagine del potere non era fisionomica. Con Federico II qualcosa cambia, e tanti studiosi hanno parlato di una rinascita del ritratto medievale. Federico II, così come volle conformare le leggi dello Stato al diritto romano mediante le Costituzioni di Melfi, analogamente volle che la sua immagine fosse simile a quella degli imperatori romani.
Sebbene in alcuni sigilli ufficiali egli venga ritratto secondo la formula tradizionale, impersonale e non fisionomica, un busto conservato al Museo Civico di Barletta e la moneta aurea da lui voluta e battuta per la prima volta, come noto, nel 1231 nelle zecche di Messina e Brindisi, mostrano Federico II effigiato “all’antica”, ammantato e coronato d’alloro. Certamente non si tratta ancora di ritratti realistici, fisionomici in senso pieno, ma certamente tramandano il ritorno in auge dei modelli classici.
Con queste premesse, l’augustale di Federico II di Svevia può essere definito a pieno titolo una moneta “protorinascimentale”.