di Vittorio Mancini | Prima di affrontare l’oggetto della presente indagine, occorre subito precisare che la stesura della stessa è stata enormemente facilitata dalla possibilità di usufruire di un prezioso strumento di lavoro: il repertorio di motti, imprese e legende delle monete italiane costituito dal volume Il linguaggio delle monete di Mario Traina. Di questo libro è stato detto e scritto in numerose e più che positive recensioni, ma è certo che, al di là delle parole, la sua importanza e la sua utilità saranno sempre più rimarcate dagli studi che sarà possibile realizzare grazie ad esso e dalle tante citazioni che, per un lunghissimo futuro, questo volume inevitabilmente riceverà da parte di chi, trovandosi a scrivere di numismatica, non potrà che trarre giovamento dall’utilizzo di uno strumento che mette a disposizione, in un’unica fonte, una miriade di preziose indicazioni e informazioni.
Fatta questa doverosa premessa, ci si può addentrare nel tema specifico della trattazione, ossia l’utilizzo delle monete come strumento per la trasmissione di determinati messaggi. Più nel dettaglio, saranno oggetto di questo articolo alcune monete papali, prevalentemente (ma non solo) emesse tra il pontificato di Innocenzo XI (1676-1689) e quello di Clemente XII (1730-1740), attraverso le quali i papi dell’epoca hanno voluto diffondere, mediante appropriate legende, alcuni specifici insegnamenti relativi al denaro.
In particolare sembrerebbe di poter classificare queste coniazioni in tre tipologie a seconda che quanto su di esse iscritto (e in qualche caso effigiato) sia riconducibile a proverbi o massime, a insegnamenti o raccomandazioni relativi alla ricchezza, a incitamenti alla (o esaltazione della) carità. In sostanza si ritiene di poter individuare, anche per la contiguità cronologica, una sorta di fil rouge che, in quel determinato periodo della storia della Chiesa, ha accomunato diversi pontefici che hanno scientemente utilizzato le loro monete per realizzare una sorta di “catechismo numismatico” volto a indottrinare le masse a proposito di un uso corretto del denaro.
Semmai, d’acchito, ci si potrebbe meravigliare del fatto che sia stata la Chiesa ad utilizzare il denaro, cioè, come lo definì Giovanni Papini, lo “sterco del demonio”, per la diffusione del proprio insegnamento. In effetti, se si pensa all’episodio di Gesù che scaccia i mercanti dal tempio di Gerusalemme – raccontato in tutti e quattro i Vangeli – si potrebbe essere tentati di concludere che Egli abbia inesorabilmente emesso una condanna senza appello nei confronti del denaro. Opinione, questa, che parrebbe rafforzata anche da alcune parole pronunciate da Gesù nei confronti dei ricchi, come quel “guai a voi” a loro indirizzato secondo quanto riportato dall’evangelista Luca, oppure il “voi non potete servire Dio e Mammona” di cui parla Matteo.[1]
Né può essere dimenticato che, nella storia del Cristianesimo, si annoverano figure che hanno fatto del disprezzo del denaro una vera e propria norma di vita: il pensiero non può che correre a San Francesco che, nella sua Regola, ordinò fermamente ai suoi frati “di non accettare in alcun modo denari o pecunia per sé o per interposta persona”[2]. Tali considerazioni, tuttavia, non devono condurre automaticamente a concludere che sussista una incompatibilità assoluta tra l’essere buoni cristiani e l’agiatezza, perché ciò che viene condannato, in realtà, è il cattivo uso che può essere fatto della ricchezza e non la circostanza in sé di essere benestanti o, comunque, di avere del denaro.
A sinistra, Roma, Clemente XIII (1758-1769), mezzo grosso 1761 (mm 17). Al R/ VAE VOBIS DIVITIBVS, “guai a voi ricchi”, in tre righe con la data. Al centro, Roma, Clemente XII (1730-1740), testone (mm 32). Al R/ DABIS DISCERNERE INTER MALVM ET BONVM, “darai la facoltà di distinguere il bene dal male”, in quattro righe. Secondo Traina, la legenda, tratta da un versetto del Primo Libro dei Re (3, 9) si riferisce al denaro, che può essere usato a fin di bene o male; da qui l’appello affinché Dio ne conceda un giusto uso. A destra, Roma, Clemente XI (1700-1721), scudo d’oro A. XII (mm 22). Al R/ FERRO NOCENTIVS AVRVM, in quattro righe
Già la Bibbia ebraica, infatti, non metteva in contrapposizione il possesso di beni col servizio a Dio; anzi conferiva alla ricchezza una dimensione teologica, configurandola come segno della benevolenza del Signore. Ciò che era richiesto al credente era l’offerta delle primizie del raccolto o dei primogeniti del gregge; egli doveva, cioè, separarsi da una parte del suo guadagno (non una parte qualsiasi, ma la prima) perché questo, oltre ad esprimere la riconoscenza verso Dio, rappresentava anche il fondamento teologico dell’elemosina. La condanna espressa dai profeti in diversi passi[3] riguardava quindi non il possesso dei beni, ma il suo abuso, specialmente se si concretizzava in una spoliazione altrui.
Gesù di Nazareth era un uomo, un ebreo, del tutto inserito nel contesto storico-geografico del suo tempo; ed era perfettamente a conoscenza delle Scritture e del loro significato più profondo. Perché, allora, sembra contraddire quanto rilevato poc’anzi, nel momento in cui lancia un’alternativa secca tra l’essere seguaci di Dio e la ricchezza, attribuendo a quest’ultima addirittura un nome? Eppure Gesù stesso ha dimostrato di conoscere ugualmente bene il denaro, tanto da utilizzarlo non solo come strumento per mettere a tacere i suoi detrattori nel famoso episodio della moneta di Cesare,[4] ma da citarlo, a volte con precisione, anche nelle sue parabole e nei suoi insegnamenti.[5]
In realtà la contrapposizione è soltanto apparente o, meglio, c’è senz’altro, ma non è tra Dio e la ricchezza bensì tra la “deificazione” di quest’ultima e Dio. Il denaro, Gesù ne è consapevole, può diventare in certe circostanze un dio, ecco perché gli attribuisce un nome, e come tale si contrappone inesorabilmente all’unico Signore. Anche la scelta dell’appellativo non è casuale: mammona, infatti, deriva dalla radice ebraica âman,[6] che indica la stabilità, la sicurezza, la solidità; dunque Mammona si offre come un dio che promette ai suoi adepti questi benefici, ma si rivela anche bugiardo perché non può liberare l’uomo dalla sua vera e più grande paura, che è quella della morte.[7] Il Vangelo però, dopo aver condannato questo falso dio, suggerisce anche la via giusta da seguire, che non coincide necessariamente col ripudio della ricchezza o con la rinuncia totale ad essa, bensì con il suo impiego “giusto”. L’episodio che conferma tutto ciò è quello di Zaccheo, il capo degli esattori inviso e odiato dai suoi concittadini di Gerico sia per le modalità della sua professione, sia per il fatto che essa lo rendeva complice[8] dell’occupante romano: quando Gesù lo scorge in cima all’albero sul quale era salito per vederlo, gli domanda ospitalità; il pubblicano, pieno di gioia per questa richiesta e per l’incontro con Lui, non rinuncia al suo denaro né lascia la sua professione (come aveva fatto Lévi-Matteo e come farà Francesco d’Assisi) ma promette di dare la metà dei suoi beni ai bisognosi e di compensare i suoi torti finanziari rimborsando ben più di quanto aveva sottratto agli altri. Ecco dunque che il corretto uso del denaro e della ricchezza non si contrappone affatto all’essere un buon credente, anzi un buon cristiano, tanto che i propositi di Zaccheo sono così ben accolti e apprezzati da Gesù da fargli affermare: “oggi la salvezza è entrata in questa casa”.[9] In altri termini si può parlare di “libertà evangelica”[10] riguardo ai beni: si può decidere di fare una scelta radicale, come appunto quella di Matteo o di san Francesco, o di optare per una via meno definitiva, ma altrettanto valida, come quella di un utilizzo corretto della ricchezza, aperto, soprattutto, alla carità e alla costruzione della giustizia sociale.
Tutto ciò premesso, non ci si deve stupire più del fatto che diversi pontefici abbiano voluto, in qualche misura, ribadire queste considerazioni facendo imprimere su alcune loro monete delle legende volte a istruire il popolo a un uso “cristiano” del denaro, attraverso – come si diceva in apertura – proverbi, ammonizioni o raccomandazioni, inni alla carità.
In alto, Roma, Innocenzo XI (1676-1689), piastra d’argento (mm 44). Al R/ NON PRODERVNT IN DIE VLTIONIS, in quattro righe. In basso a sinistra, Roma, Clemente XII (1730-1740), grosso 1739 (mm 20). Al R/ IMPLETI ILLVSIONIBVS, in quattro righe con la data. In basso a destra, Roma, Benedetto XIII (1724-1730), grosso (mm 20). Al R/ IVVAT ET NOCET, in tre righe. A destra, Benedetto XIII (Pier Francesco Orsini, 1724-1730)
PROVERBI O MASSIME | AERVGO ANIMI CVRA PECVLII, “l’amore del denaro (è) la ruggine dell’anima”. Non usa mezze misure papa Clemente XI (1700-1721), al secolo Giovanni Francesco Albani, quando fa imprimere questa legenda, ispirata ad un versetto (330) dell’Ars Poetica di Orazio, su un mezzo scudo d’argento[11].
Benedetto Odescalchi, invece, divenuto il 240° papa col nome di Innocenzo XI (1676-1689), sceglie il metallo più prezioso per far scrivere a chiare lettere dai suoi zecchieri su una doppia d’oro che QVI CONFIDIT IN DIVITIIS CORRVET, “chi confida nelle ricchezze andrà in rovina”. Concetto ribadito su un’altra doppia emessa a nome dello stesso pontefice sulla quale si può leggere MVLTOS PERDIDIT AVRVM, “l’oro ha mandato molti in rovina”, così come sul testone del già citato Clemente XI, sul quale la dicitura è MVLTOS PERDIDIT ARGENTVM (ove quest’ultimo vocabolo, oltre a riferirsi al metallo della moneta specifica, può essere tradotto anche semplicemente come denaro).
In definitiva si potrebbe dire che FERRO NOCENTIVS AVRVM, “l’oro (è) più dannoso del ferro”, come sosteneva già Ovidio nelle Metamorfosi (1, 141) e come, evidentemente, pensava anche Clemente XI che fa imprimere tali parole sia su uno scudo d’oro che sul suo multiplo da due.
Sembra quasi che i due pontefici abbiano voluto fare a gara nel ricordare agli uomini i pericoli derivanti dal denaro, inteso come falso dio: così papa Albani ribadirà sull’oro (scudo) il versetto del Libro dei Proverbi (11,4) che recita DIVITIAE NON PRODERVNT, “le ricchezze non gioveranno”, che papa Odescalchi aveva già utilizzato su una piastra d’argento con maggiore precisione: NON PRODERVNT IN DIE VLTIONIS, vale a dire “non gioveranno nel giorno del giudizio”. Infatti QVI AVRVM DILIGIT NON IVSTIFICABITVR, “chi ama l’oro non sarà giustificato”; questo è quello che Clemente XI fa imprimere ancora sull’oro (doppia).
In alto, Roma, Alessandro VII (1655-1667), giulio (mm 27). Al R/ CRESCENTEM SEQVITVR CVRA PECVNIAM, attorno a un tavolo, drappeggiato, con monete. In basso, Roma, Innocenzo XI (1676-1689), mezza piastra A. VII (mm 38). Al R/ AVARVS NON IMPLEBITVR, in tre righe. A destra, Clemente XI (Giovan Francesco Albani, 1700-1721)
Il perché lo ricorda Antonio Pignatelli di Spinazzola, divenuto papa col nome di Innocenzo XII (1691-1700); questo pontefice pio e benevolo, che sarà ricordato anche per la sua forte presa di posizione contro il nepotismo nella Chiesa e per aver affermato “i poveri sono i miei nipoti”, prese in prestito dal Libro della Sapienza (7, 9) le parole che si possono leggere su un suo testone: TAMQVUAM LVTVM AESTIMABITVR,[12] ossia “(il denaro) sarà valutato come fango”[13].
Le conclusioni di questa “catechesi” impartita da ben suoi tre predecessori saranno poi tratte qualche anno più tardi da Lorenzo Corsini, papa Clemente XII (1730-1740), che su un grosso farà osservare ai fedeli che quelli che accumulano denaro sono IMPLETI ILLVSIONIBVS, “pieni di illusioni”,[14] mentre su un’altra moneta col medesimo nominale ricorderà che il denaro, se non impiegato cristianamente, VANVM EST VOBIS, “è cosa vana per voi”.
Del resto già i due papi che lo avevano preceduto dopo la morte del suo omonimo avevano in qualche misura espresso quest’ultimo concetto: Innocenzo XIII (Michelangelo Conti, 1721-1724), infatti, aveva fatto osservare con un mezzo grosso che il denaro SATIS AD NOCENDVM, “basta per nuocere”;[15] Benedetto XIII (Pietro Francesco Orsini, 1724-1730), a sua volta, aveva scelto il grosso per ribadire che (il denaro) IVVAT ET NOCET, ossia “giova e nuoce”, a seconda, evidentemente, dell’uso che se ne fa.
Cosa fare, allora, della propria ricchezza? Lo si vedrà meglio nella parte della trattazione riservata a quelle legende che sono state classificate come ammonimenti e raccomandazioni oppure come incitamenti alla carità. Qui si può invece dire cosa non fare del denaro, almeno secondo l’insegnamento lasciato dai pontefici sulle monete.
Di sicuro non è il caso di pensare soltanto ad accumularlo, o perché poi ne godranno altri, oppure perché farà una fine diversa da quella auspicata: è Innocenzo XIII, infatti, che su un giulio fa imprimere QVI ACERVAT ALIIS CONGREGAT, “chi accumula ammucchia per gli altri”, mentre Clemente XI lascia detto su un mezzo grosso CONSERVATAE PEREVNT, ossia “conservate (le ricchezze) vanno in fumo”.
Né va dimenticato che una gran bella moneta fatta coniare tempo prima da Fabio Chigi, una volta divenuto papa col nome di Alessandro VII (1655-1667), aveva già avvertito, non soltanto a parole, ma anche con l’immagine presente nel campo, della circostanza che la quantità di preoccupazioni è proporzionale a quella del denaro. Su un giulio, infatti, attorno alla rappresentazione di un tavolo sul quale sono ammucchiate delle monete, si può leggere il verso tratto dalle Odi di Orazio (3, 16,17) che recita: CRESCENTEM SEQVITVR CVRA PECVNIAM, “l’affanno segue l’aumento del denaro”.
A sinistra, Ferrara, Clemente XI (1700-1721), testone 1717 (mm 31). Al R/ QVIS PAVPER? AVARVS, in quattro righe con la data; testone 1717 (mm 31). Al R/ SCELERVM MATER AVARITIA, in quattro righe con la data. A destra, Roma, Clemente XI (1700-1721), testone 1702 (mm 32). Al R/ tavolo con sacchetti di monete; intorno IMPERAT AVT SERVIT e la data. Giulio (mm 28). Al R/ PRVDENTIA PRETIOSIOR EST ARGENTO, in quattro righe
Mai prestare denaro con un tasso di interesse eccessivo! E’ Clemente XI, con una doppia d’oro, a riprendere un concetto già espresso in proposito da papa Leone I Magno (440-461)[16]: FOENVS PECVNIAE FVNVS EST ANIMAE, “l’usura è la morte dell’anima” .
Tanto meno pare opportuno lasciarsi sopraffare da atteggiamenti quali la cupidigia o l’avarizia. La prima, infatti, è definita da Innocenzo XI, non a caso su un pezzo dal gran valore intrinseco (una quadrupla d’oro), e sulla scorta della Prima Lettera a Timoteo (6, 10), come RADIX OMNIVM MALORVM, “radice di tutti i mali”. Alla seconda sono dedicate numerose emissioni, proprio per sottolinearne la lontananza dalla morale cristiana; così, seguendo la successione cronologica dei papi, si possono ricavare diverse sentenze in proposito: Innocenzo XI fa apporre su una mezza piastra la legenda AVARVS NON IMPLEBITVR, “l’avaro non sarà (mai) saziato” (dal denaro), mentre affida ad una doppia, dunque al metallo più pregiato, il messaggio NIHIL AVARO SCELESTIVS, “niente (è) più scellerato dell’avaro”.
Clemente XI, questa volta dalla zecca di Ferrara, dedica due coniazioni al tema in esame; la dicitura SCELERVM MATER AVARITIA, “l’avarizia (è) madre di delitti”, ispira quasi ribrezzo in chi la legge su un testone, mentre un sentimento di commiserazione si può forse provare meditando sulle parole QVIS PAVPER? AVARVS, “chi è povero? l’avaro”, impresse su un analogo nominale, con tanto di punto interrogativo.
Innocenzo XIII, infine, ribadisce una sorta di senso di pena per chi si fa soggiogare da questa condotta perché, come riportato su un testone, NVLLVS ARGENTO COLOR EST AVARIS, “il denaro non ha luce per gli avari”, dato che lo tengono sempre nascosto.
Volendo tirare le fila del discorso sin qui seguito, si potrebbe dire con due monete di Clemente XI – un testone e un giulio, rispettivamente – che il denaro, a seconda del rapporto che si instaura con esso, IMPERAT AVT SERVIT, “comanda o serve”, e che PRVDENTIA PRETIOSIOR EST ARGENTO, “la saggezza è più preziosa”.
Ciò è talmente vero che, come ricorda Innocenzo XI sia su un grosso che sulla sua metà, la saggezza non è un bene acquistabile col denaro; la legenda QVID PRODEST STVLTO, “che giova allo stolto”, richiama infatti un passo del Libro dei Proverbi (17, 16) nel quale si legge: “quid prodest stulto habere divitias, cum sapientiam edere non possit?” E cioè: “che giova allo stolto avere ricchezze, dal momento che non può comprare la saggezza”?
La conclusione, a questo punto, la si può ricavare da una nutrita serie di testoni del medesimo papa che, parafrasando una frase di Gesù ricordata negli Atti degli Apostoli (20, 35), riportano: MELIVS EST DARE QVAM ACCIPERE, “è meglio dare che ricevere”.
In basso a sinistra, Roma, Innocenzo XI (1676-1689), testone 1686 (mm 33). Al R/ MELIVS EST DARE QVAM ACCIPERE, in cinque righe con la data. In alto, Roma, Innocenzo XII (1691-1700), testone (mm 32). Al R/ NON SIT TECVM IN PERDITIONEM, in quattro righe. In basso a destra, Roma, Innocenzo XII (1691-1700), mezzo grosso 1692 (mm 17). Al R/ FAC VT IVVET, in quattro righe con la data. A destra, Innocenzo XI (Benedetto Odescalchi, 1676-1689)
AMMONIMENTI O RACCOMANDAZIONI | Si è visto quanto sostanzialmente costante, pur nel succedersi sulla Cattedra di Pietro di diverse personalità, sia stato l’insegnamento dei papi menzionati a proposito della ricchezza e del giusto modo di rapportarsi ad essa; magistero espresso attraverso una lunga teoria di “massime” inserite come legende sulle loro monete. Nulla di strano, perciò, nel fatto che tale originale forma di “catechesi” sia stata impiegata per far circolare, insieme ai soldi, anche una altrettanto corposa serie di raccomandazioni o ammonimenti, nella speranza di far sì che nessuno, un giorno, debba sentirsi indirizzare le parole conclusive della parabola del ricco stolto; quelle stesse parole che si possono leggere sull’oro di una quadrupla di Alessandro VII: HAEC AVTEM QVAE PARASTI CVIUS ERVNT, “ma quanto hai procacciato di chi sarà”?
Come quando si ricompone un puzzle mettendo insieme i vari pezzi, così ci si potrebbe divertire nel tentativo di riunire le legende utilizzate da diversi pontefici – magari a distanza di decenni – per costruirne altre di senso ancor più completo. Alcuni esempi potrebbero essere i seguenti: all’auspicio di Innocenzo XII che su un testone fa imprimere NON SIT TECVM IN PERDITIONEM,[17] (il denaro) “non sia con te nella perdizione”, si potrebbe far seguire l’invito di Benedetto XIII, che su un grosso comanda DA NE NOCEAT, “dallo perché non ti sia di danno”.
Oppure, il perentorio TOLLE ET PROICE, “prendi (il denaro) e dallo via”, presente su un grosso di Clemente XII può essere completato da NE FORTE OFFENDICVLVM FIAT, “perché non diventi un inciampo”, che lo stesso papa Corsini fa scrivere dai suoi maestri di zecca su un testone.
Ancora, volendo sottolineare nuovamente che un corretto utilizzo del denaro può contribuire alla salvezza dell’uomo, si potrebbero leggere in sequenza le legende FAC VT IVVET, “fa che sia utile”, e PRO PRETIO ANIMAE, “per il riscatto dell’anima”, che Innocenzo XII e il suo omonimo XI fanno apporre, rispettivamente, su un mezzo grosso e su uno scudo d’oro.
Ben si prestano, infine, ad essere lette come una sola frase le due raccomandazioni NEQVE DIVITIAS,[18] “non le ricchezze”, e POSSIDE SAPIENTIAM, “possiedi la saggezza”, che Innocenzo XI fa brillare sull’oro con due differenti scudi.
NOTE AL TESTO
[1] Curiosamente i brani, pur appartenendo a due Vangeli diversi, hanno la stessa numerazione: cap. 6, v 24. [2] Precipio firmiter fratribus universis ut nullo modo denarios aut pecuniam recipiant per se vel per interpositam personam. Cfr. Merlo G.G., in Travaini 2009, p. 150. [3] Cfr., ad es., Isaia 10, 1-3. [4] Cfr. Lémonon in Il Mondo della Bibbia, n. 2, marzo-aprile 2007, pp. 21-24. [5] Sulle citazioni numismatiche fatte direttamente da Gesù o comunque presenti nel Vangelo, cfr. Colombo 2003 e Amisano 2009, nonché le relative indicazioni bibliografiche per trattazioni meno recenti di tale tematica. [6] Queste considerazioni sul valore della ricchezza nell’Antico Testamento, sul significato del nome “Mammona” e sull’interpretazione delle parole di Gesù in proposito sono tratte da un saggio a sua volta contenuto in un fascicolo di una rivista religiosa dedicato in gran parte al tema del rapporto tra Dio e denaro. Cfr. Marguerat in Il Mondo della Bibbia, n. 2, marzo-aprile 2007, pp. 5-9. [7] Cfr. la parabola del ricco proprietario in Luca 12, 16-20, che si conclude con le parole “stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. V. infra. [8] Cfr. Andreau, in Il Mondo della Bibbia, n. 2, marzo-aprile 2007, pp. 17-19. [9] Cfr. Luca 19, 1-10. La “salvezza” deriva a Zaccheo dall’aver saputo capovolgere, grazie all’incontro con Gesù, il suo rapporto col denaro: prima era quest’ultimo a scandire la sua vita causandogli invidie e isolamento e perciò distruggendo le sue relazioni; ora è lui a dominarlo e a decidere della sua funzione e, quindi, a costruire grazie ad esso dei ‘ponti’ verso gli altri. [10] Cfr. Marguerat, cit., p. 9. [11] Si approfitta di questa nota per dar conto al lettore di alcune avvertenze: i nomi attribuiti alle varie monete citate nel presente lavoro sono quelli per esse adoperati da Mario Traina nel volume Il Linguaggio delle monete; in alcuni casi, come correttamente lo stesso Autore di volta in volta indica, essi differiscono da quelli utilizzati da altri (es. Muntoni); lo stesso discorso vale per le traduzioni in italiano e per quelle che vengono indicate come fonti alle quali le legende si ispirano. A titolo di esempio, per il Muntoni, la moneta con la legenda AERVGO ANIMI… è una mezza piastra e si cita come fonte San Giovanni Crisostomo. Cfr. Muntoni 1972-1974, vol. IV, p. 295. [12] Nel presente articolo le legende sono presentate nella oro forma completa e corretta con l’avvertenza che sulle monete esse potevano apparire in realtà variamente abbreviate o con diverse grafie. Nel caso di specie la moneta in questione presenta la parola TANQVAM (per TAMQVAM). [13] Su uno scudo d’oro di Clemente XII si legge: DE LVTO FAECIS, “dal fango della feccia”; la legenda, tratta dal Salmo 39, sottintende “il Signore mi ha liberato” e, per Traina, è riferita appunto all’oro. Cfr. Traina 2006, cit., p. 85. [14] Traina ricorda come la fonte biblica (Salmi 37,8: Lumbi mei impleti sunt illusionibus) sia di incerta interpretazione, tanto che la legenda presente sulla moneta viene tradotta in vari modi come, per esempio, “pieni di fiamme” o “pieni di ignominie”. Cfr. Traina 2006, cit., p. 198. [15] Secondo alcuni, la legenda va interpretata nel senso che anche una piccola moneta, come appunto il mezzo grosso in questione, “basta a far male”. Cfr. Monti 1883, III, p. 181. Ciò a conferma di quanto già presente su altre monete di pontefici precedenti: tanto Innocenzo XI sul grosso e sulla sua metà, che Clemente XI sul mezzo grosso, avevano fatto scrivere NOCET MINVS, “fa meno danni”. L’Autore sostiene che “potendosi con il denaro commettere molto di male, esso nuoce meno quando la moneta è piccina, come appunto le monetuzze su cui è impressa questa sentenza, che furono sempre di modesto valore” (cfr. p. 175). [16] Dottore della Chiesa. La citazione completa è in Traina 2006, cit., p. 168. [17] La legenda è ispirata a un versetto degli Atti degli Apostoli (8, 20) costruito, in realtà, come una condanna. Pietro, infatti, ad un uomo che voleva acquistare col denaro il potere di dare lo Spirito Santo attraverso l’imposizione delle mani, indirizza questo anatema: pecunia tua tecum sit in perditione, il tuo danaro sia con te nella perdizione. Papa Innocenzo, invece, impostando la frase come negazione, sembra voler scongiurare la condanna. [18] La legenda NEQVE DIVITIAS è stata utilizzata anche da Clemente XI su un mezzo grosso.