Un’eccezionale medaglia, realizzata da Gatteaux e Barre, celebra la fastosa incoronazione di Carlo X, illusorio preambolo di un regno tormentato
di Giancarlo Alteri | Il 16 settembre 1824, Luigi XVIII di Borbone, re di Francia, moriva a Versailles; tre giorni dopo, suo fratello Carlo, conte di Artois, saliva al trono. Carlo era nato a Versailles nel 1757 ed era il terzo in linea di successione, ma il primo e il secondo dei suoi fratelli erano morti ancora bambini; e, come se non bastasse, aveva visto morire decapitato anche il fratello maggiore, Luigi XVI, con la propria moglie Maria Antonietta.
Impopolare per le sue idee assolutistiche, la leggerezza dei costumi e le sue folli spese, pochi giorni dopo lo scoppio della Rivoluzione, Carlo era fuggito a Torino, patria della moglie Maria Teresa di Savoia e là, e più tardi in Inghilterra, aveva preparato la controrivoluzione. Era tornato in Francia subito dopo la prima abdicazione di Napoleone, per fuggire di nuovo quando Napoleone aveva rimesso piede in Francia, dopo l’esilio all’isola d’Elba. Soltanto all’indomani di Waterloo fece ritorno definitivamente in patria.
Le sue concezioni politiche erano retrive: voleva ritornare alla Francia settecentesca, come se la Rivoluzione e tutte le sue conseguenze non fossero mai apparse nella storia.
Per di più, avendo perso la propria compagna Madame de Polastron, che aveva conosciuto dopo la morte di Maria Teresa, era diventato pure estremamente bigotto. Era convinto che il re di Francia fosse tale per volontà divina, e che avesse poteri taumaturgici, potendo guarire con il solo tocco delle mani i suoi sudditi da parecchie malattie. Nonostante l’opposizione di svariati strati del suo Paese, Carlo X decise di farsi incoronare nella Cattedrale di Reims secondo il cerimoniale, fastoso ma ormai fuori del tempo, in stile Ancien regime.
Un’incoronazione fastosa, preludio di un regno tormentato
Il 29 maggio 1825 era, a quel che raccontano le cronache, una bella giornata. Nella città della Champagne erano convenuti tutti gli aristocratici di Francia con un gran numero di vescovi, quattro cardinali francesi e tutti i membri del corpo diplomatico accreditati a Versailles. Il re volle che quel solenne momento fosse eternato su una medaglia, oltre che con quadri e stampe; una medaglia che rinnovasse i fasti della grande tradizione francese, un tassello per impreziosire la Histoire Metallique dei Borboni.
Ad incidere i conii furono chiamati due artisti, uno per il dritto ed uno per il rovescio. Jacques Eduard Gatteuax era il figlio di Nicolas Marie (1751-1832), grande medaglista, quest’ultimo, e scultore affermato. Il giovane Jacques aveva soggiornato a lungo a Roma, nella sede dell’Academie française, a Villa Medici, sul Pincio, dove aveva vinto una borsa di studio.
Nella capitale dello Stato della Chiesa, l’artista aveva pure cominciato a farsi chiamare Benedetto per un fatto per lo meno curioso che gli era accaduto nell’Urbe: durante un temporale, nel 1811, si era riparato sotto un pino a Villa Borghese e, mentre la pioggia cadeva a dirotto, avrebbe visto una figura vestita di bianco che lo chiamava. Il giovane si sarebbe quindi scostato dal pino e si sarebbe avvicinato alla figura. Un attimo dopo un fulmine bruciò proprio quel pino davanti al Gatteaux convinto, dunque, che san Benedetto, cui era particolarmente devoto, gli era apparso e lo aveva salvato!
Dopo aver scolpito sempre a Roma anche i busti di Napoleone e di Maria Luisa d’Austria, aveva fatto ritorno a Parigi, a collaborare con il padre. Sebbene eccellente ritrattista, quindi, non è improbabile che Jacques Eduard Gatteaux si sia fatto aiutare dal padre nell’approntare i modelli per questa medaglia da 78 millimetri, la più grande che si potesse coniare con i macchinari di allora.
Un dritto e un rovescio “a quattro mani”, raffinati e simbolici
Il ritratto di Carlo X ormai sessantottenne, con in testa la corona di san Dionigi (rifatta per l’occasione e con una spesa folle, perché quella originale, che era servita ad incoronare nel 1723 Luigi XV era andata perduta durante la Rivoluzione), è di eccezionale resa sia fisionomica sia psicologica: un fazzoletto finissimo ricamato gli cinge il collo, mentre lo ricopre il manto d’ermellino sul quale spicca la catena e l’insegna del Toson d’Oro. Lo sguardo dell’uomo è fisso verso il futuro e le labbra atteggiate in un sorriso di compiacimento.
Invece, del tutto statica la scena del rovescio, che era stata affidata a Jean Jacques Barre (1793-1855), sebbene anche lui un abilissimo artigiano del conio, specializzato in simili scene “di massa”, diciamo così, e dal tono fortemente retorico. Esso mostra il momento in cui Carlo X, inginocchiato davanti al primate di Francia, viene da quest’ultimo unto con il sacro crisma.
L’artista dovette lavorare, ovviamente, su bozzetti fornitigli dal ministro della Real casa di Francia, che era un po’ il “regista” di tutta la cerimonia; ma il Barre non resistette alla tentazione di rievocare, nell’impianto generale, il famoso quadro del David, dipinto vent’anni prima per l’incoronazione di Napoleone. Appena rialzatosi, dopo l’unzione crismatica, Carlo X pronunciò la famosa frase “In Francia nulla è cambiato!”, intendendo affermare così che la Rivoluzione era stata una trascurabile parentesi!
Ciascuno degli esemplari in oro di questa medaglia pesa oltre 315 grammi e reca lungo il taglio il nome del personaggio, ministro, nobile o ambasciatore, cui fu donata la sera stessa della cerimonia. La sfarzosa incoronazione ispirò a Gioacchino Rossini, ormai stabilitosi a Parigi definitivamente, l’opera Il viaggio a Reims, che riscosse fin dalla sua prima rappresentazione un grande successo.
Dall’opposizione parlamentare alla “Tre giornate gloriose”
Eppure, nonostante la solennità della cerimonia dell’incoronazione e l’opera del Rossini, il regno di Carlo X non fu felice. La sua politica autoritaria, attuata dal suo braccio destro e primo ministro Jean Baptiste Villèle, gli alienò le già scarse simpatie di cui il re godeva, perfino tra i nobili. Le elezioni del 1827 rafforzarono l’opposizione parlamentare e Carlo nominò capo del governo un suo amico personale, il Polignac, che incontrò l’immediata ostilità dell’opinione pubblica. Nonostante avesse tentato di sviare il malcontento, con una spedizione militare in Algeria che ebbe successo e legò per un secolo quel paese alla Francia, Carlo X perse completamente la fiducia dei suoi sudditi.
Allora, emise le liberticide “Quattro ordinanze di Saint Cloud”, che sospendevano, fra l’altro, la libertà di stampa. Parigi insorse e dopo le “Tre giornate gloriose” (27,28 e 29 luglio 1830) il re fu costretto ad abdicare.
Carlo X tentò un ultimo, disperato tentativo manifestando l’intenzione di passare il trono al nipote, il duca di Bordeaux, e nominando il duca di Orleans come reggente e luogotenente del Regno. Nessuno dei due accettò, anzi Lugi Filippo di Orleans, che aveva ormai assunto il potere dopo la Rivoluzione di luglio, emise un ordine di cattura nei confronti dello stesso sovrano, ormai senza potere alcuno.
Così, Carlo X, diventato nuovamente conte di Artois, tornò a rifugiarsi in Gran Bretagna, in Scozia precisamente; ma il governo inglese, preoccupato di non incrinare i buoni rapporti con la nuova Francia di Luigi Filippo, lo dichiarò persona non gradita. Allora l’ex re iniziò una peregrinazione per varie città dell’Europa: fu a Vienna, a Praga ed infine a Gorizia, città in cui morì il 6 novembre 1836. Erano passati undici anni e mezzo dalla sua fastosa incoronazione, ricordata su una delle più belle medaglie francesi dell’Ottocento.