È il 1782 e nessun pontefice di Santa Romana Chiesa ha più lasciato Roma dai tempi di Clemente VII il quale, nel 1533, si era recato a Marsiglia le nozze di Enrico, figlio di re Francesco I, con la sua diletta pronipote Caterina de’ Medici. Una circostanza fausta, ben diversa da quella che porta invece Pio VI Braschi, due secoli e mezzo dopo, a lasciare l’Urbe alla volta di Vienna.
Nel 1782 Pio VI Braschi (a sinistra) decide di lasciare Roma per far visita all’imperatore d’Austria Giuseppe II d’Asburgo-Lorena per frenare le riforme che stanno per investire la Chiesa nel paese
Questo viaggio diplomatico è infatti motivato dalla politica perseguita dall’imperatore d’Austria Giuseppe II sul fronte religioso sin dall’inizio del suo regno. Il “giuseppismo” preoccupa il papa per i progetti di abolizione dei conventi tanto che il cardinale Giuseppe Garampi accusa l’imperatore di tentare uno scisma. Così, nel Natale del 1781 Pio VI decide di celebrare la Pasqua 1782 a Vienna, per rinsaldare i rapporti con l’imperatore e smorzare i toni dello scontro.
Il papa lascia Roma 27 febbraio, entra il 14 marzo nei territori asburgici e, in segno di buona volontà, l’imperatore Giuseppe II accompagna il Braschi da Wiener Neustadt a Vienna, dove giungono il 22 marzo. Visite diplomatiche, la messa pasquale in Santo Stefano, una folla di 100-200 mila persone che lo acclama: dal punto di vista popolare, il viaggio è un successo. Di meno su quello politico diplomatico, tanto da far definire la missione “una Canossa a rovescio” (leggi qui un approfondimento medaglistico).
Una stampa popolare che mostra il corteo con cui papa Pio VI sfila per le vie di Vienna, dove riceve un’accoglienza popolare calorosa
In ogni caso, il 22 aprile Pio VI lascia Vienna e si avvia, non certo soddisfatto, alla volta di Roma. Durante il tragitto di andata, che invece era stato così pieno di speranze, il papa era stato accolto con giubilo in varie città italiane fra le quali Bologna, dove aveva soggiornato dal 6 al 9 marzo 1782 ricevendo onori e festeggiamenti nonché una serie di omaggi in tondello.
Medaglia del Senato di Bologna per la tappa in città del pontefice: al rovescio la personificazione della Chiesa e le lettere S C (Senautus Consulto) ispirate alla monetazione imperiale di Roma
Le emissioni ufficiali volute dal Senato capoluogo emiliano sono uno zecchino in oro, uno scudo romano, un mezzo scudo e un testone in argento per quanto riguarda le monete, e due versioni simili – una in argento e in bronzo, la seconda solo in bronzo – di una bella medaglia celebrativa con la personificazione della Chiesa. Monete e medaglie in sé ben note, che tuttavia per le loro iconografie si prestano a qualche approfondimento.
Il rarissimo zecchino romano, nominale di punta della serie commemorativa bolognese del 1782: al rovescio, come sullo scudo, sul mezzo scudo e sul testone, un “misterioso” tempietto
Tra i “papalisti” e i cultori di monete bolognesi ci si è chiesti spesso, infatti, quale sia l’origine di quel “tempietto rotondo” al rovescio delle monete della serie del 1782. Le monete, infatti, al dritto mostrano un classico ritratto del Braschi con berrettino, mozzetta e stola e al rovescio questo curioso edificio con quattro colonne visibili che divide le due armette (del legato, cardinale Ignazio Gaetano Boncompagni Luovisi, e della città) ed è sormontato dalla legenda latina ADVENTVS OPTIMI PRINCIPI (ossia “Avvento dell’ottimo sovrano”).
Lo scudo da 100 bolognini per la visita di papa Braschi: ai lati del tempietto le armette del legato, con cappello cardinalizio, e della città, sormontata da protome leonina
Va detto, innanzi tutto, che a Bologna non esiste né è mai esistita una chiesa “rotonda” con simili caratteristiche (almeno, a quanto siamo riusciti a scoprire): dunque, il tempietto sulle monete del 1782 – è un edificio ideale che si richiama al tempio monoptero di epoca classica. Con questa definizione, nell’antica Grecia si identificavano edifici posti nei più importanti luoghi di culto in assoluto, come santuari e oracoli.
La forma circolare voleva richiamare i concetti di perfezione e completezza e simboleggiare un contatto ancora più stretto con la divinità. Spesso infatti un tempio monoptero, detto anche a tholos, racchiudeva i simboli della divinità; altre volte un era utilizzato per mostrare il ruolo sacro di una città.
Due tempietti romani celebri, quello di Ercole Vincitore e quello di San Pietro in Montorio
Dalla Grecia, questo tipo di tempio passò con successo a Roma – si pensi a quello i cui resti sono ancora visibili negli scavi di Largo di Torre Argentina, o al tempio di Ercole vincitore – tanto che perfino Bramante, in pieno Rinascimento, ne riprese il modello realizzando quel piccolo capolavoro che è San Pietro in Montorio. Poi vennero Palladio e altri a perpetuare la bellezza di simili linee architettoniche, perfette e armoniche.
La legenda e la raffigurazione delle monete per il viaggio di Pio VI del 1782 si ispirano evidentemente a quel gusto, come traggono spunto anche dalla numismatica romana imperiale nelle cui emissioni i tempietti – dalla cupola rotonda, oppure a capanna, semplice od ornata – si ritrovano in vari casi, ad iniziare da un raro dupondio del 22-23 coniato sotto Tiberio a nome del Divo Augusto.
Tra i tanti tempietti raffigurati su monete romane, questo appare al rovescio di un rarp dupondio di Tiberio per il Divo Augusto: una fonte di ispirazione per le monete bolognesi?
Sul finire del Secolo dei Lumi, dunque, l’incisore della zecca di Bologna mescola elementi classici con un portale di gusto rinascimentale rappresentando un tempietto a cupola rotonda, ma dalla pianta ottagonale, con nicchie e formelle sulle pareti ai lati dell’ingresso e un piazzale antistante raffigurato con il pavimento in prospettiva, fatto che accentua la centralità simbolica del tempietto oggetto di queste riflessioni. E il gioco sembra fatto.
Scudo in argento di Benedetto XIV Lambertini del 1743 con la Chiesa sulle nubi che regge le chiavi del mandato petrino nella destra e indica un tempietto con la sinistra
A ben guardare, tuttavia, quel tempio richiama un altro edificio sacro “ideale” raffigurato già da decenni sulle monete papali, quello che “la Chiesa sulle nubi” indica con la mano sinistra su tanti zecchini, scudi, doppi giuli e altri nominali dai tempi di Benedetto XIV Lambertini in poi.
Fortunata iconografia monetale, quella della Chiesa con chiavi e tempietto viene utilizzata per decenni, compresi gli anni di pontificato di Pio VI
Si tratta, in definitiva, della “Chiesa edificio degli uomini” sorretto dalla grazia divina che, all’arrivo del sommo pontefice nel capoluogo emiliano, “si materializza” a Bologna – e sulle monete commemorative – grazie alla presenza del Braschi, quanto mai sentita come nella sua solenne eccezionalità.