Tale fu l’importanza delle sue miniere d’argento nelle fortune spagnole che l’espressione “vale un Potosì” divenne sinonimo di ricchezza
di Marco Tagliaferri | La città boliviana di Potosí è una delle città più alte al mondo (4.090 metri s.l.m.). Fondata dagli Spagnoli nel 1545 dopo la conquista dell’Impero degli Incas (1532-1537) da parte dei conquistadores, divenne ben presto il fulcro del Vicereame di Nuova Castiglia, in seguito rinominato in Vicereame del Perù. E a tale zecca si riferisce una moneta che andrà presto all’asta e che nasconde più di una curiosità.
A Potosì, infatti, si trova il Cerro Rico (“montagna ricca”), all’epoca il giacimento d’argento più importante del mondo.
Nata come città mineraria, è stata definita da Eduardo Galeano nel suo Le vene aperte dell’America Latina come “vena giugulare del Vicereame di Spagna, sorgente dell’argento d’America”.
Nel corso dei secoli le sue cave – e la sua zecca – hanno prodotto una quantità enorme di ricchezza (si calcola qualcosa come oltre 50.000 tonnellate d’argento), trasportata prima sul dorso dei lama fino alle coste cilene e da lì in Europa nelle stive dei galeoni.
Un dato su tutti ci fa subito capire quanto Potosì fosse importante per la corona di Spagna: a metà del XVII secolo l’argento era il bene portante dell’economia spagnola e, da solo, rappresentava il 99% dei minerali esportati dai possedimenti americani!
Grazie al suo argento Potosì divenne ben presto la più grande città delle Americhe (ad eccezione di Città del Messico) con una popolazione di oltre 200.000 abitanti: più di quanti ne avessero all’epoca importanti città europee come Parigi, Madrid o Londra.
Il nome della città divenne dunque, quasi automaticamente, sinonimo di lusso: “Vale un Potosì”, scrisse Miguel de Cervantes nel Don Chisciotte della Mancia per indicare qualcosa dal valore immenso. E, ancora oggi, in Spagna l’espressione “vale un Potosí” significa “vale una fortuna”.
E proprio da Potosì arriva la rarissima moneta che il prossimo 25 aprile sarà messa all’asta da Aureo & Calicò: uno splendido pezzo da 8 reales del 1666 (lotto 304).
Al dritto, la moneta presenta lo stemma quadripartito con le armi della Castiglia e del Leon, e intorno la classica legenda PHILIPVS IIII D G HISPANIARVM R e il millesimo 66. Al rovescio la legenda POTOSI ANO 1666 EL PERV e, al centro, le Colonne d’Ercole, delle onde stilizzate e il famosissimo motto PLVS VLTRA.
Cosa significano le lettere presenti nel campo sopra e sotto tale motto? In alto indicano la zecca, il valore e la sigla del saggiatore (in questo caso P per Potosì, 8 per il valore del real ed E l’iniziale del saggiatore), in basso l’iniziale del saggiatore, le ultime cifre della data e infine ancora la zecca (es. P 66 E).
Secondo la tradizione mitologicala frase NON PLVS VLTRA (il cui significato in lingua latina è “non più avanti“, “non più oltre”) venne scolpita da Ercole sui monti Calpe (in Spagna) e Abila (in Africa), le cosiddette Colonne d’Ercole, ritenuti i limiti estremi del mondo oltre i quali era vietato il passaggio a tutti i mortali.
In contrapposizione a tale espressione, poi, il re di Spagna Carlo V – padrone di “un impero su cui il sole non tramonta mai” – trasse il suo motto PLVS VLTRA, a simboleggiare come la corona spagnola si fosse spinta oltre un limite geografico che sembrava invalicabile.
Particolarità di questo “real de a ocho” è che si tratta di una coniazione postuma: venne infatti battuto nel 1666, durante il regno dell’ultimo sovrano asburgico di Spagna, Carlo II, ma le legende fanno riferimento ancora al di lui padre, il “re pianeta” Filippo IV di Spagna.
Infine, un’ultima curiosità. Queste famosissime monete circolavano nelle colonie spagnole in America e Asia, nonché nelle Tredici Colonie che in seguito sarebbero divenute la culla degli Stati Uniti.
Avevano quindi una grande importanza e una capillare diffusione commerciale: nei libri contabili inglesi dell’epoca il simbolo del pezzo da otto era una S di Spagna barrata da due righe verticali (le due colonne d’Ercole). Vi ricorda forse qualcosa?