Nella prima parte di questo studio (leggi qui) abbiamo indagato quale contesto storico economico portò la Serenissima Repubblica di Venezia a decidere di coniare il ducato d’oro. Una moneta, il ducato di Venezia, che ebbe grande fortuna anche dopo che cambiò il suo nome in zecchino e che accompagnò le sorti della città lagunare fino alla fine del XVIII secolo. Scopriamo ora altri aspetti legati alla produzione, alla circolazione e anche alla falsificazione del ducato di Venezia.
L’origine dell’oro dei ducati veneti
Nel medioevo l’oro arrivava a Venezia, sotto forma di monete o di verghe, dall’Europa dell’est, dall’odierna Ungheria, sia direttamente che attraverso i mercanti tedeschi, in cambio soprattutto di prodotti tessili. I flussi aurei dall’Africa del Nord, inizialmente di minore entità, dalla prima metà del Quattrocento si fecero via via sempre più importanti, parallelamente alla crisi produttiva aurea ungherese, slovacca e transilvana. Ad un certo momento fu necessario imprimere un’accelerazione alll’importazione di oro africano, monetato e in pagliuzze, mediante l’istituzione, nel 1436, di viaggi di galere che resero possibile lo scambio di argento europeo con oro africano.
E’ interessante notare, in questo contesto, che nel 1463 i flussi di oro africano in direzione di Venezia si attestavano certamente su livelli rilevanti, posto che in quell’anno le importazioni auree dall’Africa subirono un dazio dell’1%.
Dettaglio della rappresentazione pittorica di una miniera risalente alla metà del XVI secolo: metodi di estrazione e lavorazione dell’argento sono gli stessi dei secoli precedenti
Le continue esportazioni di oro monetato in ducati
Nel XV secolo ovunque, o quasi, le esportazioni d’oro e d’argento erano vietate e le importazioni favorite, coerentemente col fatto che, in tempi anteriori alla scoperta dell’America, le economie che non potevano contare su risorse minerarie proprie erano assillate dall’approvvigionamento dei metalli preziosi da monetare.
Al contrario, Venezia destinava all’esportazione la gran parte dei ducati battuti: i cronisti coevi hanno registrato con compiacimento l’esportazione di ducati mediante convogli di galere diretti verso il Levante, come segno incontestabile della floridezza della Serenissima.
Secondo la Cronaca Morosini, infatti, nel 1433 ben 460 mila ducati furono imbarcati per il Levante ed ancora una stima di Eliyahu Ashtor, per l’ultimo ventennio del XV secolo parla di 300-360 mila ducati inviati ogni anno alla volta di Alessandria d’Egitto e della Siria, su una produzione annua di circa 450-550 mila ducati (circa il 65% della produzione annua media della zecca di Venezia). Secondo l’autorevole parere di Philip Grierson un’esportazione regolare di 300 mila ducati per anno sottintenderebbe una produzione annuale di circa un milione di ducati.
Questa particolare politica monetaria di Venezia, tesa a non impedire l’esportazione della moneta pregiata locale, per quanto poco imitata all’estero, era ammirata da alcuni economisti dell’epoca, come, ad esempio, Antonio Serra, che nel suo trattato pubblicato nel 1613, illustra il paradosso della città lagunare, che abbondava di denaro nonostante vi fosse permesso esportare le monete preziose locali senza limiti.
È logico che tale politica monetaria veneziana, pienamente liberale, fosse suggerita dalle necessità di una bilancia commerciale fortemente deficitaria nei confronti del Levante. Gli scambi commerciali necessitavano di importanti saldi in moneta preziosa e, come visto, la moneta internazionale per eccellenza, fortemente ricercata e accettata in tutto il bacino del Mediterraneo, in quegli anni era proprio il ducato di Venezia. I benefici di siffatta politica monetaria erano, peraltro, noti al Senato veneziano: erano certamente importanti gli utili che pervenivano all’erario sotto forma di dazi, di diritti di coniazione e di signoraggio.
La Processione in Piazza San Marco di Gentile Bellini, dipinta nel 1496, ci dà una formidabile istantanea della ricchezza di Venezia in quel periodo
I ducati “bullati”
E’ documentato che almeno dall’ottobre del 1328, a Venezia, i grossi pagamenti venivano onorati con borse di cuoio colme di ducati, sigillati col sigillo di San Marco. La sigillatura avveniva presso i Camerlenghi di Comun, una delle casse dell’erario veneziano, e tali borse costituivano i cosiddetti “ducati bullati”.
Le borse sigillate garantivano il giusto peso dei ducati e potevano, quindi, darsi a numero. E’ nota una disposizione del Maggior Consiglio del 24 febbraio 1352 che ordina ai funzionari statali di non accettare in pagamento “ducatos non bullatos”; e nel 1414 veniva loro ordinato di riceverne solo “se boladi in un borseto o no altramente”. In questo modo si assicurava all’erario l’incasso di ducati certamente autentici e giusti di peso, in un momento storico caratterizzato da una grande svalutazione dell’oro rispetto all’argento ed anche da una vasta contraffazione del ducato veneziano in molte zecche del Levante.
E’ la stessa cosa che accadde a Firenze sin dal 1294, quando venne istituito l’Officio del Saggio con la nomina di un saggiatore (o pesatore) di fiorini d’oro, avente il compito di pesare e verificare i fiorini d’oro per accertare se fossero “legali”, ovvero di conio fiorentino, autentici e buoni di peso. Quelli falsi o calanti di peso venivano accantonati, mentre quelli buoni erano raccolti in sacchetti di cuoio privi di cuciture, contenenti un determinato numero di fiorini, e chiusi mediante un lacciuolo passante su una “salimbacchera” o “salimbacca” (scatoletta), su cui era versata cera mesticata (cera mescolata con colori e olio) su cui era impresso il sigillo dell’Ufficiale del Saggio. Questo era il cosiddetto “fiorino di suggello” utilissimo nelle transazioni importanti, nei grossi pagamenti, in quanto il suggello, come un secondo conio, evitava il fastidio e le lungaggini di contare e pesare i fiorini uno ad uno.
È molto raro, questo ducato di Venezia di Michele Morosini dal momento che il 61° doge della Serenissima rimase in carica solo dal 10 agosto al 16 ottobre del 1382
Ad ogni buon conto, sono noti episodi di sostituzione di sacchetti di ducati bullati con altri colmi di ducati scarsi di peso: un tale Giorgio Maurica di Candia, recatosi un bel dì alla pesatura dell’argento, fece pesare 111 ducati d’oro che furono trovati di buon peso, e gli venne consegnata una borsa di pelle affinché ve li “ingroppasse”. Allora egli, fatto il “groppo”, con abile mossa fece bollare un’altra borsa, contenente 110 ducati scarsi di peso, che poi utilizzò per pagare un nolo, defraudando il Governo. Non è nota la pena cui venne sottoposto, che pur ci dovette essere, essendo stata scoperta la frode.
Sono, altresì, noti sette processi, risalenti alla seconda metà del Trecento, in cui il reato contestato era la sostituzione di ducati scarsi a quelli giusti di peso attraverso un bel foro praticato nella borsa da “bullare”.
Falsificazioni, tosature e condanne a Venezia
I pochissimi studiosi che si sono occupati delle falsificazioni e manipolazioni subite dal ducato aureo e, in generale, dalla monetazione veneziana nel basso medioevo, hanno individuato i seguenti caratteri generali del fenomeno:
- le terribili pene previste dalla legge e le scomuniche papali non costituirono mai un reale deterrente alla falsificazione ed alla tosatura delle monete;
- la pena capitale della morte sul rogo, prevista per i falsari, in laguna fu applicata di rado; i giudici comminavano molto più di frequente il taglio di una o di entrambe le mani e/o l’accecamento parziale o totale;
- promulgazione di leggi draconiane e processi ai falsari avevano un picco in concomitanza dei periodi di crisi della circolazione monetaria e/o di speculazione su particolari emissioni, venendo in questo modo a rappresentare un vero e proprio indicatore economico;
- i falsi di monete veneziane erano fabbricati lontano dalla laguna, spesse volte in luoghi isolati dell’Emilia e della Romagna;
- i cambiavalute e banchieri veneziani, che in teoria avrebbero dovuto concorrere con le autorità nel presidio del circolante, molto spesso erano complici di tosatori e di spacciatori di mala moneta.
Un falso d’epoca di ducato di Venezia a nome di Andrea Contarini (1362-1382) realizzato in rame (probabilmente, in origine era stato dorato)
Volendo scendere nel dettaglio della falsificazione del ducato, esso, assieme al fiorino di Firenze, era certamente costoso da imitare o contraffare, in quanto la zecca ci metteva molta cura nella loro produzione e teneva molto basso il signoraggio. In altre parole, il valore nominale del ducato era praticamente uguale al suo valore intrinseco, a differenza delle monete veneziane d’argento e di mistura. Tutto ciò è provato dai documenti: le imitazioni erano numerose, mentre le contraffazioni costituivano un’eccezione.
Il pericolo maggiore per il ducato d’oro era rappresentato, invece, dalla cernita (tesoreggiamento dei pezzi di peso giusto o abbondante) e dalla tosatura, problemi che valevano, ovviamente, anche per la monetazione argentea.
Di seguito si descrivono un caso di falsificazione ed uno di tosatura del ducato veneziano. Un episodio di contraffazione accadde nella Padova dei Da Carrara e coinvolse un notaio di nome Paolo e un orefice di nome Jacopo, originario di Ravenna, entrambi abitanti in Padova. Notar Paolo fornì il rame e 3 ducati genuini, mentre l’orefice apprestò i conii e batté le monete utilizzando i tondelli di rame prodotti con la materia prima fornita dal notaio. Entrambi, poi, curarono la doratura dei pezzi battuti. Nel 1364, quando i due furono arrestati, erano stati prodotti circa 220 ducati fasulli, che notar Paolo aveva tentato di spendere a Venezia.
La condanna fu esemplare e spietata: notar Paolo fu condotto su un’imbarcazione per il Canal Grande fino a Santa Croce, con in testa una corona decorata dei suoi falsi ducati; poi proseguì a piedi, seguito dal “precone” che gridava al popolo la sua colpa, per Ruga dei Oresi, Rialto, la Spezieria, la Merceria fino ad arrivare in Piazzetta San Marco, tra le due colonne, ove terminò di vivere arso sul rogo, recando sempre in testa la corona con i suoi falsi ducati. Il falsificare moneta dello Stato era, a Venezia come un po’ dappertutto, un reato della massima gravità, che meritava di essere punito con durezza.
Un esemplare di ducato a nome del doge Michele Steno (1400-1413) lievemente tosato e con peso ridotto a 3,35 grammi
Un episodio di tosatura di ducati d’oro, invece, è quello che riguarda un nobile veneziano, Leonardo Gradonico, avvenuto sul finire del XIV secolo in quel di Alessandria d’Egitto. Il Gradonico fu condannato in contumacia a Venezia nel 1392. Nel 1407 la moglie chiese, ed ottenne, dal Maggior Consiglio la grazia per suo marito, ma il reo non si fidò di rientrare a Venezia. L’8 novembre 1413, dunque a distanza di più di vent’anni dal crimine, a Venezia il Gradonico fu riconosciuto, arrestato e la sentenza originaria immediatamente eseguita il giorno dopo: nonostante fosse un nobile, egli dovette subire l’accecamento, il taglio della mano destra e il bando perpetuo dalla città lagunare. E ciò nonostante la grazia, evidentemente effimera, a suo tempo ottenuta dalla moglie, a dimostrazione che il reato di tonsura della moneta aurea dello Stato era affare gravissimo.
Il taglio dei tondelli e la tradizionale coniazione manuale con pila, torsello e martello
Gli zecchini “al torchio” del doge Bembo
E’ opinione diffusa che Venezia abbia continuato a produrre i ducati/zecchini sempre e solo mediante battitura al martello. A ben vedere, però, non è così. Già Papadopoli Aldobrandini, nella seconda metà dell’Ottocento, ha riferito di un documento dei provveditori in zecca del 30 marzo 1616 con cui si raccomanda di mantenere i figli di Marco Zanchi nell’ufficio di lavorare “li detti cecchini col torchio”. Infatti i figli dello Zanchi, già gastaldo di zecca in quel di Venezia, ovvero Giovan Battista e Giovanni Francesco Zanchi, nel 1615 avevano avanzato una supplica ai Provveditori per “continuare nella presente maniera di lavorare detti zecchini col torchio, dove riescono egualmente piani e d’una grandezza e perfetta rotondità di quel che mostrano alla maniera di lavorarli col martello”, senza tralasciare di rassicurare sull’essere in grado di produrre un numero maggiore di monete con minore spesa che col metodo di coniazione classico al martello.
Dunque già nel 1615 nella zecca di Venezia era in uso un macchinario, definito “torchio”, col quale gli Zanchi riuscivano a coniare zecchini perfettamente circolari e piani, sostenendo spese di coniazione inferiori rispetto alla battitura al martello. Ma che tipo di macchinario era quel “torchio”?
La risposta a questa domanda è rintracciabile in una cronachetta manoscritta secentesca, conservata al Museo Correr e resa nota da Giovannina Majer circa settant’anni or sono. In essa si dice che lo Zanchi, riportando testualmente, “dopo aver tirato l’oro in cordelle le va mettendo sotto un torchietto e tagliator a vida”.
Ducato (zecchino) a nome del doge Giovanni Bembo (1615-1618): risale breve al periodo in cui la zecca di Venezia si avvaleva probabilmente di una macchina a coni rotanti
Analizziamo attentamente le informazioni tramandate da questo importante documento: Marco Zanchi produceva a Venezia cordelle, ovvero lamine d’oro che sottoponeva alle seguenti lavorazioni: in prima battuta le lamine erano passate al torchietto; in seconda battuta le lamine passavano al “tagliator a vida”, che altro non era che una fustellatrice.
Basandoci sull’ordine delle lavorazioni cui erano sottoposte le lamine d’oro dallo Zanchi, l’unico metodo di coniazione congruente con la descrizione data è quello a conii rotanti, caratterizzato, appunto da stampaggio del dritto e del rovescio di ciascuna moneta non già su tondelli preventivamente approntati (come avviene per la battitura al martello, per quella con conii basculanti e anche per quella con torchio a bilanciere) ma direttamente sulle lamine di metallo prezioso; le monete erano quindi ottenute, dopo la coniazione, direttamente dalle lamine mediante taglio con fustellatrice, ottenendo nummi perfettamente circolari.
Per questi motivi possiamo affermare con sicurezza che i ducati d’oro, gli zecchini, prodotti a Venezia negli anni 1615 e 1616, dunque emessi a nome del doge Giovanni Bembo (1615-1618), furono prodotti con una innovativa macchina dotata di conii rotanti. Siffatta coniazione si configura come la prima emissione di monete veneziane ottenuta con macchinari invece che con la classica tecnica della coniazione a martello. Da quanto mi consta, per la prima volta il “torchio” o “torcolo” utilizzato dagli Zanchi è identificato in una pressa a conii rotanti.
Un esempio di conio rotante (Segovia, Spagna) e una pressa a conii rotanti (Hall, Tirolo)
Si potrebbe anche ipotizzare che tali conii rotanti altri non fossero che quelli realizzati a Venezia da Bernhard Wertmann, tecnico tedesco appositamente chiamato in Laguna nel 1575 per realizzare un “edificio col torchio” dello stesso tipo di quello allora in azione nella zecca di Hall, nel Tirolo, che era, appunto, dotato di conii a rullo mossi sfruttando l’energia cinetica dell’acqua. Ad onor di cronaca, il macchinario del Wertmann non venne mai messo continuativamente in funzione, risultando utilizzato solo per una “piezeria” il 24 settembre 1575 (Civico Museo Correr, Archivio Morosini-Grimani, b.534, fasc. III, come notato da Ugo Tucci).
Ad ogni buon conto, a Venezia l’uso di questi macchinari per coniar moneta continuò per pochissimi anni, visto che da allora e fino al 1756, quando vennero coniati a bilanciere i primi talleri per il Levante, tutte le monete della Serenissima furono battute sempre e solo al martello, a forza di braccia.
Bibliografia essenziale
- Eliyahu Ashtor, “The volume of Levantine trade in the later Middle Ages”, in Journal of European economic History, 4, 1975
- Federico Berchet, “Contributo alla storia dell’edificio della Veneta Zecca prima della sua destinzione a sede della Biblioteca Nazionale Marciana”, in Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, anno accademico 1909-1910, tomo LXIX – Parte seconda
- Giorgetta Bonfiglio Dosio (a cura di), “Il Capitolar dalle broche” della Zecca di Venezia, Padova, 1984
- Bartolomeo Cecchetti, “Appunti sulle finanze antiche della Repubblica veneta”, in Archivio Veneto, tomo XXXV, parte I, anno XVIII, fasc.69, 1888
- Roberto Cessi, “Studi sulla moneta veneziana. La coniazione del ducato aureo”, in Economia. Rassegna mensile di politica economica, II, 1924
- Carlo M. Cipolla, “Moneta e civiltà mediterranea”, Neri Pozza, Venezia, 1957
- Mario De Ruitz, “Monete a Venezia nel tardo Medioevo – Un ritorno alle fonti”, Canova, Treviso, 2001
- Philip Grierson, “La moneta veneziana nell’economia mediterranea del Trecento e Quattrocento”, in La civiltà veneziana del Quattrocento”, Sansoni, 1957
- Giovannina Majer, “L’officina monetaria della Repubblica di Venezia”, in Archivio Veneto, LII-LIII, Vol.83, 1953 (ma pubblicato nel 1954)
- Reinhold C. Mueller, “Venezia nel tardo medioevo”, Viella, Roma, 2021
- Nicola Papadopoli Aldobrandini, “Le monete di Venezia”, rist. anast. dell’edizione di Venezia e Milano 1893 e 1919, 3 voll. e 1 di tavole, Forni, Bologna, 1967
- Luigino Rancan (a cura di), “Monete della Serenissima – La collezione Banca Popolare di Vicenza”, appendice numismatica in Alvise Zorzi, “Il denaro di Venezia”, Biblos, Cittadella (PD), 2012
- Alan M. Stahl, “The mint of Venice in the middle ages”, Baltimore, 2000
- Ugo Tucci, “Mercanti, navi, monete nel Cinquecento veneziano”, il Mulino, Bologna, 1981