Preima che venisse coniato il ducato di Venezia, nel XII secolo gli scambi della Serenissima erano fondati essenzialmente sulla moneta aurea bizantina per eccellenza, l’iperpero (anche detto nomisma), in oro a 21 carati (875 millesimi). Successivamente, nel 1252, come noto, in Europa occidentale prese avvio la coniazione di monete in oro puro, per la prima volta dai tempi della riforma monetaria di Carlo Magno (genovino in quel di Genova e fiorino a Firenze).
Anno 1252: nuove monete in oro per Genova e Firenze
A ben vedere quest’ultima affermazione è vera per tutta l’Europa occidentale fatta eccezione per la penisola iberica e per l’Italia meridionale. In particolare in quest’ultima i Normanni non smisero mai di battere i tarì in oro, aventi peso variabilissimo e titolo di circa 16,5 carati e che, dunque, si spendevano a peso, e tra il 1231 e il 1250 a Messina e Brindisi l’imperatore Federico II volle fossero battuti i noti aurei augustali con le loro metà, che, a differenza dei tarì, avevano peso e titolo predeterminati e, dunque, si spendevano a numero (per l’augustale: 5,28 grammi di oro per 20,5 carati, argento per 2 carati e 5/8, rame per 7/8 di carato, lega complessa nota col nome di oro di pagliola).
Iperpero coniato a Costantinopoli a nome di Andronico II (1282-1328), peso g 3,43, periodo di emissione dal 1303 al 1320 circa
Nel XII secolo Venezia commerciava intensamente con l’Italia meridionale soprattutto per approvvigionarsi di grano: spesso nei pagamenti si utilizzavano barre d’oro ottenute dalla fusione dell’oro di pagliola. Successivamente, dopo che Venezia ebbe avviato la massiccia coniazione dei grossi d’ottimo argento, tali pagamenti avvenivano in parte in barre auree ed in parte in grossi matapan. Addirittura, nella seconda metà del secolo XII l’erario del Regno di Sicilia teneva i propri conti in grossi di Venezia.
Il 30 ottobre 1264 il Tribunale della Quarantia dispose che l’oro di pagliola, proveniente dal Sudan attraverso i porti commerciali del Meridione d’Italia, venisse fuso in lingotti portandolo alla finezza massima a quel tempo ottenibile, pari a circa i 23 carati e ¾ (990 millesimi). Sappiamo che la coniazione del ducato d’oro veneziano era stata preceduta da quella del genovino d’oro a Genova e, subito dopo, da quella del fiorino di Firenze, nell’anno 1252: entrambe queste monete erano battute in oro di estrema purezza ed al peso di 3,53 grammi circa.
Genovino in eccezionale stato di conservazione, battuto nel periodo 1139-1339, peso 3,50 g
Alle coniazioni auree di Genova e Firenze seguirono quella di Lucca nel 1256 e quella di Perugia nel 1259 (nessun esemplare conosciuto), ma nessuna delle menzionate emissioni auree sortì, neppure lontanamente, il successo del fiorino di Firenze, che tra la metà del XIII secolo e la fine del secolo successivo fu la moneta internazionale per eccellenza, che godette del maggior prestigio in tutto il bacino del Mediterraneo, tanto che i funzionari della zecca fiorentina poterono orgogliosamente rivendicare il “communem cursum quem habet dicta moneta auri per universum orbem terrarum”.
Fiorino fiorentino del periodo 1189-1532, peso 3,53 g
Il 31 ottobre 1284, dunque esattamente 740 anni fa, il Tribunale della Quarantia approvò l’emissione della prima moneta d’oro di Venezia, dopo cinque secoli di attività della zecca: il ducato. La notizia ci è giunta mediante gli atti del Maggior Consiglio, visto che i registri della Quarantia sono andati perduti. L’atto di approvazione è conciso, coerentemente col pragmatismo veneziano, e suona nel seguente modo:
“1284, die ultimo octubris. Capta fuit pars quod debeat laborari moneta auri comunis, videlicet LXVII pro marcha auri, tam bona et fina per aurum, vel melior, ut est florenus, accipiendo aurum pro illo precioquod possit dare moneta prodecem et octo grossis; et fiat cum illa stampa que videbitur domino duci et consiliariis et capitibus de quadraginta, et cum illis melioramentis que eis videbuntur; et si consilium est contra sit revocatum quantum in hoc. Pars de XL; et erant XXVIIII de quadraginta congregati ex quibus voluerunt hanc partem XXII et septem fuerunt non sinceri et nullus de non” (Archivio di Stato di Venezia, Maggior Consiglio, registro Luna, c. 48 v.).
Da quanto letto non è possibile, purtroppo, conoscere il contesto politico e sociale in cui fu presa questa decisione ma, ad ogni modo, è interessante notare che alla votazione erano presenti ventinove membri su quaranta, inclusi il doge e i suoi sei consiglieri che facevano parte della Quarantia. E’ evidente che il voto favorevole alla coniazione del ducato d’oro fu di ridotte proporzioni, in quanto si registrarono soli ventidue voti a favore e ben sette astensioni.
Ducato di Venezia a nome del doge Giovanni Dandolo (1280-1289), periodo 1285-1289, di notevole rarità, peso 3,52 g
Si noti, inoltre, che il nome “ducato” non è indicato nell’atto istitutivo, anche se fin da subito nei documenti contabili la moneta è indicata come “ducato” o “ducato veneto” traendo spunto dalla leggenda del suo rovescio. E’ evidente che l’artistica moneta aurea veneziana fu concepita ad immagine e somiglianza del fiorino di Firenze, e che dovesse essere spesa per un valore di 18 grossi.
Il doge, San Marco, il Redentore sulle nuove monete
Il taglio di 67 monete per marco (unità di misura ponderale che a Venezia valeva circa 238,45 grammi) è certamente più complesso e scomodo rispetto alle 8 monete per oncia previste dallo standard del fiorino, e per renderli esattamente eguali nel peso, il taglio del ducato sarebbe dovuto essere di 67 monete ed ⅓ per marco. Al taglio legale di 67 ducati per marco, la nuova moneta aurea veneziana veniva ad essere, in teoria, più pesante del fiorino (3,56 grammi rispetto ai 3,53 del fiorino) con un contenuto di metallo prezioso non inferiore a quello della nota moneta fiorentina.
La tolleranza massima sul peso del ducato venne originariamente fissata a 1 grano veneto, pari a 0,052 g circa; nel 1317 venne dimezzata (mezzo grano = 0,026 g circa) e, infine, nel 1330 lo scostamento massimo dal peso legale teorico venne ulteriormente dimezzato, divenendo pari alla quarta parte del grano (0,013 grammi circa).
I tipi del dritto e del rovescio del ducato di Venezia furono mantenuti praticamente immutati fino alla caduta della Repubblica, avvenuta nel 1797. Essi derivano sostanzialmente dai tipi del grosso matapan, moneta veneziana di ottimo argento (974 millesimi) che incontrò immediatamente il favore delle classi commerciali dell’Oriente mediterraneo fin dal XIII secolo, pur caratterizzati, nel ducato, da uno stile notevolmente migliorato, più elegante, e con le posizioni di San Marco e del doge invertite.
Grosso matapan a nome del doge Jacopo Contarini, peso 2,17 g
Nicolò Papadopoli Aldobrandini, nel suo saggio sugli incisori dei conii della zecca di Venezia, pubblicato nel 1888, avanza l’ipotesi che il primo incisore dei conii atti alla produzione del ducato possa essere stato tale Giovanni Albico (o Albizo). Non sappiamo se ciò corrisponda a verità, ma resta accertato che trattasi del più remoto incisore dei conii a Venezia menzionato da documenti ufficiali (deliberazione del Maggior Consiglio del 7 maggio 1308).
Nel dritto troviamo le figure di San Marco, patrono di Venezia, e del doge che non è più raffigurato in condizioni di parità col santo, ma inginocchiato di fronte a quest’ultimo in evidente segno di deferenza e sottomissione.
San Marco è ben rappresentato, con vesti finemente incise ed il braccio destro teso a porgere il vessillo al doge, mentre con la mano sinistra stringe il Vangelo. Al contrario, la figura del doge non appare altrettanto curata. Ad ogni buon conto, la resa artistica del dritto del ducato è indubbiamente superiore a quella del dritto del grosso matapan, segno inequivocabile della maturità ed abilità degli incisori che ne lavorarono i conii.
Notiamo nel perimetro del dritto la leggenda S M VENET(I), il nome del doge e, lungo l’asta del vessillo, la parola DVX. Tutto sommato, dunque, il dritto del ducato non presenta elementi iconografici innovativi rispetto alla coeva monetazione veneziana.
Al contrario, il rovescio presenta contenuti iconografici profondamente innovativi, mostrando il Cristo benedicente, ritto in piedi, con ampio drappeggio, incastonato in un’aureola a forma di mandorla, seminata di stelle.
E’ un’immagine inedita, mai apparsa fino ad allora in campo numismatico nel bacino del Mediterraneo. Altra novità del rovescio del ducato è la leggenda perimetrale, inedita, insolitamente lunga e rimata: SIT T XPE DAT Q TU REGIS ISTE DUCAT, ovvero Sit tibi Christe datus quem tu regisiste ducatus, che significa “Sia dato a te, Cristo, questo Ducato che tu sostieni”.
Veduta di Venezia in una miniatura dal “Libro del Gran Khan”, titolo del codice dell’opera di Marco Polo conservato alla Bodleian Library di Oxford
I primi esemplari di ducato di Venezia furono battuti nel marzo 1285, come tramandato da un’epigrafe marmorea appositamente esposta nell’edificio della zecca, andata, purtroppo, perduta nel XVI secolo, di cui parla Marin Sanudo nella sua opera Vite dei dogi. Per l’occasione furono nominati due nuovi massari all’oro.
Nell’aprile 1285 le leggi veneziane che regolavano il mercato dei metalli preziosi furono modificate affinché i mercanti tedeschi, che allora dominavano il commercio dei metalli preziosi in Europa, potessero portare e vendere l’oro direttamente in zecca.
Norme speciali per favorire il successo del ducato veneto
Ben presto si riscontrò la difficoltà di far circolare il ducato al valore fissato di 18 grossi: nel giugno 1285, infatti, il Maggior Consiglio deliberò una serie di norme che fece attestare il valore del ducato d’oro su 18,4 grossi; inoltre per tenere sotto controllo il valore di scambio del ducato fu data la possibilità ai Maestri di zecca di pagare l’oro portato in zecca con la moneta che preferivano.
Un formidabile impulso alla diffusione della nuova moneta aurea veneziana venne compiuto attraverso alcune norme speciali: (1) ai mercanti veneziani che richiedevano ducati da impiegare nei porti commerciali dell’Italia meridionale e del Mediterraneo orientale furono anticipati i nuovi ducati ad un tasso agevolato; (2) in zecca l’oro veniva coniato in ducati contro una tariffa di soli 5 grossi per marco, che si diceva fosse il costo effettivo della coniazione (assenza di signoraggio); (3) l’Erario della Serenissima anticipò alla zecca un capitale di oltre 4000 ducati, in modo da poter pagare rapidamente tutti coloro che intendevano portare oro da monetare.
Particolare di un mosaico che mostra l’attività produttiva in una zecca del medioevo
Anche il luogo in cui la nuova moneta veniva battuta, precedentemente indicato come officina monetaria, venne denominato “zecca” in concomitanza con la battitura del ducato d’oro. Infatti questo termine, derivante dall’arabo sikka, che significa “luogo ove si coniano le monete”, risulta utilizzato in documenti risalenti al 1285. Nel 1290 il termine zecca è utilizzato a Venezia sia con riferimento alle monete d’oro che a quelle d’argento.
Un aspetto mantenuto per secoli e divenuto icona
A dare maggiore sicurezza ai commercianti e agli investitori che lo utilizzarono fu anche lo stile di questa moneta aurea, che rimase pressoché immutato sotto i 73 dogi che la coniarono. Il ducato manterrà inalterato anche il proprio titolo fino alla caduta della Repubblica nel 1797, praticamente pari a 24 carati (precisamente 990 millesimi circa, il valore massimo ottenibile con la tecnologia di quei secoli), pur subendo tre lievissime riduzioni di peso: nel 1491, quando il taglio venne portato a 67,5 pezzi per marco (3,53 g per ducato); nel 1519, col taglio portato a 68 pezzi (3,50 grammi per ducato); infine nel 1526, quando venne disposto che da un marco si ottenessero 68,25 ducati (3,49 g per ducato).
Nel corso del tempo anche la sua denominazione subì una modifica, passando da ducato a zecchino verso la metà del Cinquecento. La nuova denominazione derivò dall’esigenza di identificare le monete ancora integre, appena coniate, nuove di zecca per l’appunto; la nuova denominazione suonò cechin, in quanto la zecca in veneto era appellata cecha.
L’enorme successo che il ducato di Venezia incontrò sui mercati del bacino del Mediterraneo, ed in particolare in quelli orientali, è testimoniato anche dalla discussione del Maggior Consiglio del 18 aprile 1414, in cui si legge “[…] ciò risulta essere di grande onore e vantaggio per la nostra città, evidentemente per il fatto che la nostra moneta è di oro puro più di qualsiasi altra moneta al mondo”.
Il ducato cambia nome in zecchino a metà del ‘500: ecco un esemplare a nome di Francesco Donà (1545-1553), 3,47 g
Anno 1422: il fiorino di Firenze “abdica” al ducato veneto
Esiste anche una testimonianza che attesta il “passaggio di consegne” avvenuto, in termini di moneta pregiata e accettata in campo internazionale, tra il fiorino di Firenze e il ducato veneto. Nel 1422 all’ambasciatore fiorentino in Egitto fu inviata la seguente istruzione, onde presentare al nuovo sovrano di quei territori, Al-Ashraf, la richiesta che le monete d’oro e d’argento di Firenze potessero circolare in Egitto.
Ecco il testo: “[…] et massime il fiorino nostro come il ducato veneziano, essendo buono e migliore di finezza d’oro e di peso, come quello; mostrando che è più fine, e la ragione per che; di che siete avvisati, e di peso si veda chiaro, e in ciò vi assottiglierete quanto è possibile, offrendo di farne la prova, con mettere a fuoco, e fondere, i fiorini e i ducati, e ingegnarvi d’aver notizia e dimestichezza con chi di ciò s’intenda; questo e di maggiori importanze che cosa abbiate a fare, domandare, che se ne faccia esperienza; mostrando far per l’oro; e mostrato che il nostro fiorino mai non peggiorò di finezza e che in molte parti è conosciuto di virtù come il ducato e più”.
Alla fine il fiorino ottenne la possibilità di circolare anche in Egitto, ma gli interessi dei fiorentini erano notevolmente maggiori in Occidente, per cui nel Quattrocento, e anche negli anni a venire, la moneta aurea di Firenze non scalfì minimamente il predominio del ducato di Venezia sui mercati orientali.
Per questi motivi, nel XV secolo il ducato di Venezia venne preso a modello da tanti stati dell’area del Mediterraneo centro-orientale e persino in India, con risultati diversificati sia in termini di contenuto di fino sia per la qualità delle impronte. A tal proposito si veda il mio recente saggio L’augustale di Federico II | 2a parte, pubblicato su Cronaca Numismatica (clicca qui) ove si parla del progetto di novello augustale ideato dal vicerè di Sicilia Moncayo nel maggio 1461, che prese come modello proprio il ducato di Venezia, segno inequivocabile del passaggio della Sicilia dall’area del fiorino d’oro di Firenze a quella del ducato aureo di Venezia.
Miniatura medievale che raffigura un banco di cambiavalute, complessa ma lucrosa professione diffusa anche a Venezia
Il rapporto oro/argento a Venezia e manovre monetarie
E’ noto che il laboratorio di saggio e affinazione dei metalli preziosi venne istituito a Rialto con deliberazione del Maggior Consiglio in data 8 dicembre 1269. In base a questa deliberazione gli ufficiali della zecca avevano il dovere di verificare la bontà dell’oro e dell’argento che vi arrivavano e di raffinarli in verghe aventi un titolo pari a 23,75 carati (990 millesimi circa, come visto la massima purezza allora tecnicamente possibile).
Da altri documenti conosciamo il valore di mercato dell’oro e dell’argento a Venezia in quegli anni, dunque siamo in grado di calcolare il rapporto tra i valori dei due metalli preziosi. Sappiamo che l’oro si pagava a quel tempo in zecca al portatore 5 lire e 8 soldi a grossi per carato di finezza, per marco, mentre l’argento si pagava al portatore 233 soldi a grossi per marco della finezza di 23,75 carati per l’appunto. Dunque, tenuto conto che 5 lire e 8 soldi a grossi sono pari a 108 soldi a grossi, si ha: 108×23,75/233 = 11 circa.
Mezzanino d’argento a nome del doge Andrea Dandolo (1342-1354), peso 0,72 g
Questo valore ben presto si modificò a favore del biondo metallo: un documento trevigiano risalente al 1311, reso noto da Carlo Cipolla, tramanda che un marco d’oro era valutato quanto 13 marchi d’argento, con un rapporto tra i due metalli salito, dunque, a 1:13. Negli anni venti del XIV secolo l’oro, che fino a quel momento aveva guadagnato terreno nei confronti dell’argento arrivando fino al rapporto di 1:14,3, subì un lento declino. Di conseguenza anche il ducato veneziano subì un lento ma inesorabile indebolimento in quel periodo di tempo.
Le ragioni di quest’indebolimento vanno individuate nel crescente afflusso di oro che in quegli anni si registrò in Europa dai territori dell’Africa mediterranea, dal Mar Nero e dalle regioni dell’Europa orientale.
Per far fronte a questa situazione, col ducato inflazionato rispetto al grosso d’argento, a Venezia il legislatore tentò di stabilizzare il potere d’acquisto della moneta aurea attraverso due decreti, uno del 1321 e l’altro del 1328. Però non fu ottenuto il risultato voluto, in quanto a quel tempo nella città lagunare la moneta forte era il grosso d’argento e, dunque, la sopravvalutazione legale del ducato incoraggiava l’estrazione dei grossi matapan, il cui intrinseco era sottovalutato a confronto col corso dell’oro, nei mercati del Mediterraneo orientale.
Soldino in argento a nome del doge Giovanni Dolfin (1356-1361), peso 0,51 g
Per impedire l’esportazione dei grossi si sarebbe potuto operare in due modi alternativi: (1) rinunciare al mantenimento del monometallismo su base aurea; (2) ridurre il rapporto tra i valori in moneta di oro e argento, diminuendo l’intrinseco del grosso oppure elevandone il valore nominale.
Nulla di tutto ciò, comunque, fu fatto, e le autorità veneziane seguirono altre vie: mancando i registri del Tribunale della Quarantia per il periodo in esame, non resta che attenerci alla testimonianza della numismatica. In quegli anni furono emesse due nuove monete d’argento, il mezzanino e il soldino, rispettivamente del valore di 16 piccoli (mezzo grosso) e di 12 piccoli, ma aventi un intrinseco nettamente inferiore a quello del grosso matapan. Due mezzanini, infatti, contengono circa l’8,6% in meno d’argento rispetto ad un grosso, cui equivalevano come valore nominale, mentre la differenza arriva addirittura al 20,3% per il soldino!
E’ appena il caso di dire che l’emissione di tali nuove monete, fiduciarie in senso letterale, produsse a Venezia comprensibili malumori… (continua)