di Roberto Ganganelli | Il Vangelo secondo Luca è l’unico che narra la parabola del fariseo e del pubblicano, sottolineando come Gesù raccontò questa parabola per “alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri”: “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18, 10-14).
Sotto il profilo teologico, La parabola inizia con la parola “due”. Questo, come in altri casi nei Vangeli, ribadisce che ci sono due vie nella conduzione della vita terrena, paragonabili alla pecora smarrita e a quella pecora ritrovata, al figliol prodigo e suo fratello maggiore, alla porta stretta e a quella porta larga, alla casa costruita sulla sabbia e quella casa costruita sulla roccia, e ancora i due ladroni crocifissi, uno alla sinistra e uno alla destra di Gesù, che rappresentano due posizioni opposte rispetto alla grazia divina.
Non stupisce, dunque, che un signore del Rinascimento come Alfonso I d’Este, III duca di Ferrara, scelga – nel periodo maggior feeling con la Santa Sede – di effigiare una sintesi di questa parabola su alcune sue celebri monete, come il doppio ducato in oro, il quarto o testone in argento (15 soldi secondo Lorenzo Bellesia) e i 5 soldi in mistura. Gli stessi conii, opera del maestro Giammatteo da Foligno, vengono usati per coniare le monete in oro e in argento; del rarissimo doppio ducato, in particolare, sono note due varianti, la prima con busto del duca barbuto e l’altra con busto imberbe. Al rovescio è inciso con mirabile precisione nei dettagli il fariseo che presenta a Gesù la moneta del tributo; attorno, la legenda latina QVE SVNT DEI DEO (“Le cose che sono di Dio a Dio”) tratta da Matteo (22, 21) ove si lege “Reddite ergo quae sunt Caesaris Caesari et quae sunt Dei Deo” (“Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”).
Impronta e legenda – secondo tutti i massimi esperti che si sono pronunciati sulla moneta, da Mario Ravengani-Morosini a Lorenzo Bellesia e a Mario Traina – alludono alla chiarezza e correttezza dei rapporti instaurati e sempre mantenuti da Alfonso con i suoi sudditi. Il fiore che si scorge al rovescio sotto il busto ricorda probabilmente la rosa d’oro che papa Giulio II donò ad Alfonso nel 1508. Dai documenti di zecca apprendiamo che il doppio ducato con ritratto imberbe fu il primo ad essere realizzato, nel 1505.
Nel 1510, Alfonso rifiutò di aderire alla pace stipulata tra il Papato e Venezia, perché andava contro gli interessi di Ferrara; fu scomunicato e dichiarato decaduto dal Ducato. Si alleò così con la Francia contro la Lega Santa e partecipò alla battaglia di Ravenna l’11 aprile 1512. In quell’occasione i suoi cannoni dimostrarono tutta la loro efficacia – l’Este sarebbe passato alla storia come “il duca artigliere” – consentendo ai Francesi di sbaragliare l’esercito pontificio. Alfonso ottenne così la revoca della scomunica e nel 1513, nel mese di marzo, si recò a Roma per prendere l’incoronazione di Giovanni de’ Medici al soglio pontificio col nome di Leone X.
Anche con questo papa, tuttavia, i rapporti non furono affatto idilliaci tanto che Alfonso si guadagnò il poco invidiabile primato di tre scomuniche subite, tutte per ragioni politiche, non solo da papa Della Rovere ma anche dal Medici e, infine, da Clemente VII. Tornando alla parabola del fariseo citata all’inizio, e alle monete estensi che la effigiano, non si può infine non notare come erano tempi, quelli di Alfonso I, nei quali anche i sommi pontefici tendevano spesso a confondere le cose degli uomini e le cose di Dio.