Fu coniata nel 1731 a nome di Clemente XII l’ultima piastra pontificia, nata per volere di Sisto V nel 1588 e massimo modulo in argento della serie papale
di Antonio Castellani | Tutte le storie finiscono, si sa, e anche la numismatica non fa eccezione. La gloriosa storia delle piastre dei romani pontefici era iniziata sul declinare del XVI secolo per opera di Sisto V dal momento che nello Stato Pontificio la piastra, grande moneta d’argento del peso di circa 32 grammi, con diametro di 43-44 millimetri e valore iniziale di 10 giuli, aveva visto la luce per la prima volta proprio sotto papa Peretti (1585-1590).
In realtà, si potrebbero considerare piastre anche i ducati o ducatoni a nome di Clemente VII battuti a Castel sant’Angelo durante il Sacco per pagare il riscatto di 400 mila ducati richiesto da Carlo V per la libertà del pontefice e di Roma assediati dai Lanzichenecchi a partire dal maggio 1527.
Le piastre, per il loro ampio modulo, furono tra le monete più belle e adatte a svolgere il ruolo di propaganda tipico, del resto, di tutte le monete e delle medaglie; su di esse, infatti, essendo i nominali argentei di maggior modulo della zecca pontificia, si esercitò l’arte di abili incisori con soggetti religiosi o profani di importanza capitale per la vita sia della Chiesa sia dello Stato Pontificio, come accadeva appunto sulle medaglie.
La battitura di questi nominali iniziò nel IV anno di pontificato di Sisto V, il 1588 e il papa, al proprio ritratto, volle abbiata la scena del santo di Assisi che, in preghiera alla Verna, riceve le Stimmate. Tali piastre furono battute a Roma e Montalto (leggi qui per saperne di più).
All’estremo opposto della serie delle piastre ne troviamo una rarissima (Muntoni 18), voluta nel 1731 da papa Clemente XII Corsini (1730-1740). Al dritto, il busto a destra del pontefice con camauro, mozzetta e stola; attorno CLEMENS | XII PONT. MAX. e in basso, in caratteri piccoli, la firma HAMERANI dell’autore, l’incisore Ottone membro della celebre famiglia di artisti del bulino.
Al rovescio troviamo invece le due figure allegoriche dell’Abbondanza e della Giustizia, sedute di fronte e rivolte l’una verso l’altra, che si stringono la mano mentre reggono nelle mani esterne, rispettivamente, una cornucopia e una bilancia.
E’, questa raffinata moneta, un ennesimo manifesto programmatico e di principi dal momento che la legenda latina recita FOEDVS EST INTER ME ET TE (Terzo libro dei re, 15, 19) che, col suo significato “C’è un’alleanza tra me e te” sottolinea come l’abbondanza discenda solo dall’esercizio della giustizia, sia per quanto riguarda un governo nei confronti dei suo popolo sia per quanto riguarda i rapporti fra gli individui.
Simbolica anche quella corona d’alloro che spezza la legenda del rovescio e che, simbolo di gloria ma anche di sapienza, quella stessa sapienza che il papa stava cercando di usare per rimettere in sesto le finanze pontificie. Ma quale messaggio “occulto” potrebbe celarsi dietro la moneta appena presa in esame?
A proposito di quel 1731 che segna la conclusione della serie delle piastre papali, viene spontaneo pensare che proprio in quell’anno il pontefice aveva ripristinato il gioco del lotto togliendo il bando emesso dal predecessore Benedetto XIII.
Con un’astuta mossa “protezionistica” il gioco venne legalizzato all’interno dei confini dello Stato Pontificio, ma fu proibito al di fuori di esso dando origine a una sorta di “monopolio benedetto” di tale gioco, diffusissimo fra la popolazione.
In sostanza, il papa decise niente meno che la scomunica per chiunque avesse giocato all’estero, ossia ai banchi del lotto attivi a Genova, Napoli e Milano si doveva infatti impedire il passaggio di somme rilevanti alle casse estere, affinchè ne beneficiasse esclusivamente la Camera Apostolica.
La gestione del gioco venne affidata all’Arciconfraternita di San Girolamo della Carità e garantita dalla Camera Apostolica. Gli utili avevano come destinazione gli ospedali, le parrocchie, le famiglie bisognose. Secondo il nuovo sistema, venivano stampate le liste contenenti i nomi di 90 “zitelle”.
I nomi delle ragazze venivano scelti su indicazione del papa dalle varie parrocchie romane, con particolare riguardo alle ragazze più povere e alle orfane: le cinque “preferite dalla sorte” ossia, associate ai numeri estratti, ricevevano in dono una veste nuziale e 50 scudi di dote per il loro futuro matrimonio.
Beneficenza a parte, ben presto i risultati di questa decisione risultarono evidenti: nelle casse romane entrò una somma annua che ammontava a quasi mezzo milione di scudi e tale gettito – con buona pace di chi aveva storto il naso – contribuì non poco a risanare le dissestate finanze pontificie. Insomma, la concretizzazione pratica di quanto enunciato sull’ultima piastra della storia: il connubio virtuoso frea giustizia e abbondanza!
Morto papa Corsini, il suo successore al soglio di Pietro, Benedetto XIV Lambertini (1740-1758), intraprendente in tutti i campi compresa la monetazione, dopo aver affidato la zecca pontificia alle dirette dipendenze della Camera Apostolica avviò una riforma monetaria, nel 1753 che vide la piastra trasformarsi nello scudo romano, dalle dimensioni simili ma dal peso ridotto a circa 26,5 grammi. Iniziava una nuova fase per i massimi moduli in argento papali.
Per leggere un altro approfondimento sulle monete di Clemente XII, i due rari testoni con l’effigie del suo illustre antenato, sant’Andrea Corsini, clicca qui.