Acquisita nel 1902, la Concessione italiana di Tientsin ebbe dal 1918 una banca e propria cartamoneta
di Antonio Castellani | Già nel corso dell’Ottocento il Regno di Sardegna aveva aperto dei consolati in Cina, a Canton e a Shanghai, con consoli stranieri come rappresentanti. Nell’ottobre del 1866, quindi, fu stipulato un primo trattato di commercio e navigazione con la Cina consolidando in tal modo i rapporti commerciali e diplomatici del neonato Regno d’Italia con il lontano Impero asiatico.
Italiani in Cina alla fine del XIX secolo
La presenza degli italiani residenti in Cina era, tuttavia, piuttosto esigua (appena 22 persone nel 1872 e 131 nel 1891, per la maggior parte a Shanghai); per questo motivo, e per un generale disinteresse a livello politico, solo nel 1878 Ferdinando De Luca, console italiano, fu nominato residente a Pechino (in precedenza i consoli italiani risiedevano in Giappone).
Dopo le ostilità sino-giapponesi concluse nel 1895 la presenza occidentale (italiana compresa) venne ulteriormente consolidata con la creazione di Legazioni, strutture diplomatiche con relativi presidi militari.
Fra il 1900 e il 1901 si svolsero una serie di poco note operazioni militari, causate dalla reazione delle potenze occidentali al tentativo di estromissione politica ed economica attuato dall’imperatrice Tzu Hisi. Dapprima furono attuate restrittive limitazioni alla presenza occidentale, poi la situazione degenerò nella rivolta dei Boxer e, infine, culminò con la dichiarazione di guerra ufficiale dell’Impero cinese alle potenze occidentali, il 20 giugno 1900.
Dalla rivolta dei Boxer alle Concessioni occidentali
L’Italia partecipò alla guerra prima con appena quarantadue soldati del contingente distaccato presso la Legazione di Pechino, poi con circa duemila uomini del contingente di soccorso integrato nel Corpo di spedizione internazionale di 15.000 uomini. Al termine della guerra l’imperatrice Tzu Hisi, con il trattato di pace del settembre 1902 fu costretta a cedere una ventina di Concessioni alle potenze vincitrici, e quella di Tientsin venne affidata all’Italia.
Il bottino di guerra italiano può essere così riassunto: riconoscimento della Legazione italiana nel quartiere delle Legazioni di Pechino, con un contingente di truppe a presidio; la Concessione di Tianjin (Tientsin o Tien-sin), che occupava un’area di circa mezzo chilometro quadrato, nei pressi del porto e complessiva di un piccolo villaggio rurale; la concessione dell’uso dei quartieri internazionali di Shanghai e Amoy (Xiamen, nel Fujian); infine, un indennizzo per danni di guerra il cui importo venne quantificato in 102 milioni di lire del 1901.
Il rientro in patria delle truppe del contingente italiano iniziò nell’agosto agosto 1901. Due compagnie di bersaglieri fecero ritorno l’anno successivo mentre le restanti compagnie di fanteria, riunite in un battaglione coloniale, rimasero in Cina sino al 1905. La presenza di italiani, praticamente, fu quasi sempre limitata a personale diplomatico e militare (ad esempio, nel 1935 la comunità italiana civile contava solo 150 persone).
Gli italiani a Tientsin si organizzano
Nonostante gli esigui numeri della nostra presenza a Tientsin, già nel 1900 funzionava un ufficio di posta militare per le truppe italiane dislocate nella zona che, nel 1902, venne aperto al pubblico con francobolli sovrastampati TIEN-SIN e PECHINO che furono ad esclusivo uso del personale diplomatico.
Dopo la Prima guerra mondiale, alla sfera d’influenza italiana si aggiunsero i crediti e le attività economiche ed industriali ereditate dall’impero austro-ungarico. Così, oltre alla presenza di decine di aziende italiane, si rese necessaria l’apertura di istituti di credito per supportare il traffico finanziario e commerciale di import-export.
La mancanza di sportelli bancari in Cina, tuttavia, non fu avvertita dal Governo tanto che la Società italiana per il commercio con le Colonie costituita nel 1901 dal Credito Italiano e dalla Società Bancaria Milanese non prese neppure in considerazione la nostra minuscola colonia cinese.
L’istituzione della Chinese Italian Banking Corporation
Nel 1913 il Conte Sforza, responsabile diplomatico presso la Legazione di Pechino, richiese l’apertura di una banca italiana, ma per la realizzazione di questo progetto si dovette attendere il 1918, quando l’allora primo ministro Nitti ottenne l’interessamento di quattro importanti gruppi bancari: la Banca Commerciale Italiana, il Credito Italiano, il Banco di Roma e la Banca Nazionale di Sconto che, finalmente, nel 1920 istituirono a Tientsin la Chinese Italian Banking Corporation, con filiali a Pechino e Shanghai, rinominata poi come Banco Italo-Cinese nel 1923.
Anno 1921: finalmente arrivano le banconote
Con l’apertura della banca si ebbero anche due emissioni di banconote. La prima, dell’aprile del 1921, venne stampata dal Bureau of Engraving and Printing di Pechino nei valori da 1, 5 e l0 yuan che oggi sono rarissimi. La seconda emissione, con data 15 settembre 1921, venne invece stampata dalla American Banknote Company, sempre a nome della The Chinese Italian Banking Corporation, nei valori da 1, 5, 10 yuan – ancora piuttosto comuni sul mercato collezionistico – e nei tagli da 50 yuan, raro e 100 yuan, rarissimo, oggi conosciuto in appena meno di dieci esemplari, tutti più o meno rovinati da macchie di umidità.
Molto probabilmente, queste banconote entrarono mai effettivamente in circolazione, ma sono comunque molto ricercate dai collezionisti per la loro rarità.
La fine della Concessione italiana in Cina
Dopo l’8 settembre 1943, i giapponesi catturarono i militari italiani che ancora rimanevano in Cina, facendoli prigionieri. Con il trattato di Parigi del febbraio 1947 le potenze occidentali fecero esplicito atto di rinuncia alle loro mire nel paese asiatico.
In particolare, l’art. 25 recita: “L’Italia accetta l’annullamento del contratto d’affitto concessole dal Governo cinese in base al quale era stabilita la Concessione italiana a Tientsin ed accetta inoltre di trasmettere al Governo cinese tutti i beni e gli archivi appartenenti al Municipio di detta Concessione”.
E proprio questo trattato è da considerarsi l’ultimo capitolo dell’avventura coloniale italiana nella lontana Cina.