di Eleonora Giampiccolo (courtesy by Historia Mvndi n. 7, 2018, pp. 156-177) | Sin dall’antichità era invalso l’uso di gettare monete nelle fondazioni di un qualsiasi edificio da costruire. L’esempio più antico sembra essere dato dall’Artemision di Efeso dove, durante gli scavi del 1904-1905, venne scoperta un’olpe contenente diciannove monete lidie in elettro in corrispondenza di uno dei livelli stratigrafici più antichi del tempio che, stando a vari studiosi, sarebbe stata volontariamente deposta come deposito di fondazione.
Tacito nelle Historiae (IV, 53) racconta che, quando nel 75 l’imperatore Vespasiano fece ricostruire il tempio di Giove Capitolino sul Campidoglio, che era stato distrutto da un incendio nel 69, vennero deposti nelle fondazioni argenti aurique stipes et metallo rum primitiae: “Vespasiano affida l’incarico di ricostruire il Campidoglio a Lucio Vestino, appartenente all’ordine equestre, ma personaggio fra i più illustri per autorità e prestigio. Gli aruspici da lui convocati gli raccomandarono di trasportare le macerie del vecchio tempio in uno stagno e di innalzare il nuovo sulle fondamenta del primo: gli dei vietavano di cambiare la vecchia struttura. Il ventuno di giugno, sotto un cielo luminoso, tutta l’area dedicata al tempio venne cinta con bende sacre e corone; vi fecero penetrare dei soldati dai nomi di buon augurio, recanti rametti di alberi fruttiferi; poi le vergini Vestali, con ragazzi e fanciulle aventi padre e madre ancora viventi, la aspersero con acqua attinta da fonti e da fiumi. Allora il pretore Elvidio Prisco, cui il pontefice Plauzio Eliano suggeriva la formula rituale, immolò, quale sacrificio di purificazione, un maiale, una pecora e un toro, e, deposte le viscere su un altare composto di zolle erbose, alzò una preghiera a Giove, Giunone e Minerva e alle divinità protettrici dell’impero, perché assecondassero l’opera iniziata ed elevassero, con la loro divina assistenza, quella loro dimora, iniziata dalla pietà degli uomini. Poi toccò le sacre bende avvolte attorno alla prima pietra e alle funi che la reggevano, mentre gli altri magistrati, i sacerdoti, il senato, i cavalieri e gran parte del popolo, univano, in gioiosa partecipazione, i loro sforzi per trascinare un masso enorme. Furono gettati qua e là, nelle fondamenta, pezzi d’argento e d’oro e metalli grezzi, non domati da nessuna fornace, ma così come natura li produce. Gli aruspici espressero l’ammonimento che non si contaminasse l’edificio con pietra o con oro destinato ad altro fine. L’altezza del tempio venne accresciuta: si credeva che la legge rituale consentisse quest’unica modifica e che soltanto quel pregio mancasse alla magnificenza del tempio precedente”.
Vi sono diverse testimonianze della continuità di questa pratica anche nel Medioevo e la prima risalirebbe alla deposizione della prima pietra della facciata del duomo di Siena avvenuta nel 1284. Nel corso della cerimonia religiosa presieduta dal vescovo “molta moneta […] per segno di donagione furono poste nelle fondazioni: “En quello anno del mese di magg[i]o si cominc[i]ò a fondare la facc[i]a del Duomo dinazi allo spedale Sante Marie; e fu fatto nella prima pietra una grande solennità, e ‘1 vescovo con tutto el clericato cantando ini e salmi e orazioni, a riverenzia della Vergine Maria, e con aqua benedetta e oncenso, e con suono delle chanpane e delle tronbe del comuno; e fu una grande solennità, e fu messo ne’ detti fondamenti molta moneta di più ragioni per segnio di donagione”.
Così avvenne anche quarant’anni dopo, quando nel 1325 nelle fondazioni della Torre del Mangia, sempre nella città balzana, venne ripetuto un analogo rituale. Generalmente, nel Quattrocento, con l’affermarsi delle medaglie, queste ultime sostituirono, in parte o del tutto, le monete in tale usanza (un discorso a parte meritano le cosiddette “medaglie murali” di Francesco Carrara il Vecchio, signore di Padova dal 1350 al 1388). Pian piano si creò una vera e propria tipologia standard: al dritto trovava posto il busto del committente o il suo stemma, mentre, al rovescio, la rappresentazione della costruzione da innalzare o da ristrutturare, disegnata spesso a partire dal progetto dell’architetto.
Sigismondo Malatesta fu tra i primi a far propria questa tradizione, che voleva essere di buon auspicio per la erigenda costruzione, ma anche eternare tra i posteri il ricordo di uomini e fatti, seminando qua e là, nelle fondazioni degli edifici che andava costruendo, le medaglie che Matteo de’ Pasti gli realizzava per l’occasione. La medesima tradizione venne ereditata dai romani pontefici, i quali collocarono nelle fondazioni degli edifici o medaglie di fondazione realizzate ad hoc oppure le medaglie annuali e le monete dell’anno in cui la cerimonia si svolgeva.
Quando decise di ampliare l’allora Palazzo di San Marco, oggi conosciuto come Palazzo Venezia, la cui costruzione egli aveva iniziato quando era ancora cardinale, Paolo II depositò nelle fondazioni e nelle mura diverse medaglie recanti il suo stemma o il suo busto e l’alzato dell’edificio, in alcuni casi inserite all’interno di veri e propri salvadanai in terracotta (Fig. 1). Durante il suo pontificato, papa Barbo fece acquistare, infatti, diverse “bochalette per reponere metaiglie nelli muri novi” delle costruzioni che andava innalzando e fu talmente preso da questa mania al punto che non solo il Platina, che non era proprio un suo ammiratore, ma anche il cardinale Ammannati gli rimproveravano questo suo desiderio di immortalità.
Il 3 dicembre del 1962 venne portato al Medagliere Vaticano un “dindarolo” in terracotta con tre medaglie di Paolo II, trovato sotto il pavimento di un locale sottostante alla loggia del Bramante. La prima medaglia reca, al dritto, il busto del Pontefice verso sinistra con la legenda PAVLVS II VENETVS PONT MAX e, al rovescio, san Pietro e di san Paolo nimbati, seduto l’uno di fronte all’altro, intenti ad osservare il gregge che si abbevera ai piedi di una fontana sulla quale spicca un Agnus Dei e la legenda PABVLVM SALVTIS in esergo; la seconda mostra, al dritto, il busto del Pontefice a sinistra circondato dalla legenda PAVLVS VENETVS PAPA II e, al rovescio, la personificazione dell’Hilaritas identificata proprio dalla legenda HILARITAS PVBLICA; nella terza si riscontra un identico tipo sia al dritto sia al rovescio ovvero il busto del Pontefice con tiara e piviale, circondato dalla legenda PAVLO VENETO PAPE II ANNO PVBLICATIONIS IVBILEI ROMA.
La stessa tradizione fu seguita da Sisto IV per la costruzione dell’omonimo ponte e da Giulio II per il suo colossale progetto di ricostruire dalle fondamenta l’ormai fatiscente basilica costantiniana di san Pietro.
Sisto IV ricostruì un antico ponte romano, che, ormai da molti secoli in rovina, era all’epoca chiamato“Ponte Rotto”. Erano passati quasi mille anni da quando questo ponte, costruito da Agrippa al tempo di Augusto, era stato trascinato via dall’acqua del Tevere probabilmente durante la famosa piena del fiume, avvenuta nell’inverno tra il 589 ed il 590. Data la sua inagibilità, quindi, a collegare il Vaticano con il resto della città, fino al tempo di Sisto IV, era rimasto il ponte Sant’Angelo, che, proprio per questo, durante il Giubileo del 1450 era stato teatro di una spaventosa tragedia, per la massa dei pellegrini che si erano trovati a transitare tutti insieme su di esso. Il ricordo di quell’incidente era certamente ancora vivo al tempo di papa della Rovere, il quale volle ricostruire il vetusto ponte, anche in previsione dell’allora imminente giubileo. Egli incaricò della realizzazione dell’impresa il fiorentino Baccio Pontelli, uno dei più famosi architetti del tempo. Il cronista Stefano In fessura ci ha lasciato testimonianza della cerimonia della posa della prima pietra avvenuta nel 1473 e anche in questo caso si fa riferimento a medaglie posizionate nelle fondazioni (Fig. 2): “A dì 29 d’aprile Papa Sixto con quattro cardinali et molti vescovi si conferì da palazzo in Trastevere, et a ponte Rotto, canto lo fiume, dove lui haveva destinato reconciare detto ponte, et descese allo fiume et missenelli fondamenta dello ditto ponte una pietra quatra dove stava scritto SIXTVS QVARTVS PONT. MAX. FECIT FIERI SVB ANNO DOMINI 1473. Dereto ad quella pietra misse lo papa certe medaglie d’oro, colla sua testa, et po fece edificare quello ponte, lo quale da lì in poi non fu più chiamato ponte Rotto, perché lì vi era lo ponte prima ma era rotto, ma ponte Sixto…”.
La medaglia, che viene quasi unanimemente attribuita ad un certo Lisippo il Giovane, attivo a Roma tra il 1473 e il 1485, raffigura, al dritto, il busto del Pontefice a testa nuda con piviale, incorniciato dalla legenda SIXTVS IIII PONT MAX SACRICVLTOR, mentre, al rovescio, campeggia il ponte, a quattro archi a tutto sesto, dotato di una semplice balaustra protettiva e sormontato dalla legenda in tre righe CVRA / RERVM / PVBLICARVM.
A proposito di Giulio II, il cerimoniere pontificio, Paride de’ Grassi, racconta, che il Papa, il sabato in albis del 1506, avendo deciso di porre la prima pietra nel luogo di uno dei quattro pilastri, che avrebbero dovuto sostenere il “coro” ossia il “ciborio” della nuova basilica del Principe degli Apostoli, terminata la Messa, tutti si recarono verso l’Egitto (cioè, verso la chiesa degli Abissini), attraverso la cappella di Santa Petronilla, nella zona dietro l’abside, dove era stata scavata la fossa del pilastro della Veronica, profonda quasi sette metri e mezzo. Era stata approntata una strada – continua il de’ Grassi – con tavole e palanche, per permettere la discesa fino alla base del pilastro. Ma data la larghezza e la profondità, molti, specialmente il Papa, temevano di cadere. Perciò Giulio II a quelli che stavano lungo l’orlo della fabbrica gridava che si togliessero di lì. Nessun cardinale scese con il Papa, all’infuori dei due cardinali diaconi assistenti. E con loro si calarono giù alcuni muratori e un orefice, che recava dodici medaglie larghe come un’ostia da messa e di spessore come la lama di un coltello. Da una parte della medaglia c’era l’immagine di Giulio II, con la legenda JVLIVS LIG PONT MAX ANNO SVI PONT III MDVI, e dall’altra c’era il progetto della nuova basilica, con la legenda, intorno, INSTAVRATIO BAS APOST PETRI ET PAVLI PER JVLIVM II PONT MAX, e, sotto il progetto, VATICANVS. Due di queste medaglie – sostiene sempre il de’ Grassi – erano d’oro, del valore di circa venti ducati, mentre le altre di similoro, e furono messe dentro un contenitore di terracotta. La pietra che fu posta nelle fondamenta era di marmo bianco, larga due palmi, lunga quattro e spessa quasi venticinque dita. Da una parte c’era l’epigrafe AEDEM PRINCIPIS APOST IN VATICANO VETVSTATE ET SITV SQVALENTEM E FVNDAMENTIS RESTITVIT JVLIVS LIG PONT MAX ANNO MDVI; dall’altra non c’era niente. E questa pietra non fu posta coricata, ma dritta, aderente alla parete (Fig. 3).
La medaglia che fu realizzata da Cristoforo Foppa detto il Caradosso rappresenta, al rovescio, la basilica di San Pietro secondo il progetto del Bramante che a quanto dice il Vasari, sembra abbia fornito addirittura il bozzetto.
Generalmente noi sappiamo dell’esistenza di questi depositi di fondazione perché i cronisti del tempo ne hanno lasciato traccia nei propri scritti; capita di rado che ci si possa imbattere in alcuni di essi: essendo, infatti, stati deposti all’altezza della prima pietra, essi vengono alla luce solo in casi di lavori straordinari che coinvolgono le fondamenta stesse dell’edificio, oppure in caso di demolizione dello stesso.
Durante il pontificato di Gregorio XVI, l’allora presidente della Comarca Paolo Orsi Mangelli, originario di Forlì e Decano del Collegio dei Protonotari Apostolici Partecipanti, decise di prolungare la Via Sublacense, già costruita da papa Pio VI fino alla città di Subiaco. Il Mangelli, che ricopriva questa carica dal 1835 aveva portato avanti diversi lavori di modernizzazione dell’assetto viario della Comarca, alcuni dei quali riguardarono la via Empolitana che attraversava il paesino laziale di Gerano. Il progetto della nuova Sublacense, che la Presidenza della Comarca si accingeva a portare avanti, non solo avrebbe messo in comunicazione la Comarca con la provincia di Frosinone, ma prevedeva anche la costruzione di un grandioso ponte sul fiume Aniene, dall’unico arco semicircolare con una luce di 20 metri, “piantato sulle spalle di due opposte rupi, all’altezza di quarantotto sulle scorrenti acque del fiume”, proprio in corrispondenza di una delle tre dighe che avevano alimentato in passato la villa fuori porta dell’imperatore Nerone. Dell’ardita costruzione venne incaricato il professore Nicola Cavalieri San Bertolo, originario di Civitavecchia, che nel 1818 era diventato ispettore del Corpo di ingegneri pontifici d’acque e strade, istituito da Pio VII con il motu proprio del 23 ottobre 1817 Disposizioni regolatrici dei lavori pubblici di acque e strade e ricopriva l’incarico di professore di architettura statica e idraulica presso la scuola degli ingegneri pontifici. Nel 1834 aveva assunto la direzione dei lavori dell’Azienda stradale della provincia della Comarca. Il Cavalieri si era distinto nella realizzazione di importanti opere per lo Stato Pontificio, prima fra tutte “la riforma generale della distribuzione dell’Acqua Felice, in secondo luogo la correzione della via Trionfale e il tracciamento della Sublacense nuova al confine frosinate in miglia romane oltre le undici” e infine in veste di architetto “il ponte che fra Subiaco e Santa Scolastica travalica l’Aniene nella detta via Sublacense.
I lavori proseguirono in maniera spedita e già nel settembre 1841 tutto era pronto per la parte più complicata da affrontare ovvero la costruzione del ponte e della cappelletta che sarebbe stata dedicata a san Mauro, il frate cenobita, seguace di san Benedetto che proprio in quel punto avrebbe camminato sulle acque per salvare il confratello Placido.
La provincia richiese espressamente al Segretario di Stato, il cardinale LuigiLambruschini la facoltà di poter inaugurare il ponte col nome di “Ponte Gregoriano” in omaggio al Pontefice. Il 31 agosto Mons. Antonio Antonucci, originario di Subiaco e da poco fatto vescovo di Montefeltro, con rito solenne benedisse la prima pietra del ponte.
Il 15 settembre del 1841, il presidente Mangelli, alla presenza del segretario del Consiglio direttivo, ilnotaio Paolo Maria Renazzi, che ricopriva tale carica dal 1833 del professore Cavalieri San Bertolo e di altri testimoni, procedette alla posa della prima pietra del ponte, collocando con le proprie mani “nell’imposta destra dell’arcata la pietra inaugurale su cui venne scolpito in numeri romani il millesimo dell’anno. Presso la suddetta pietra venne posizionato un tubo di piombo all’interno del quale insieme alla copia in pergamena dell’Istrumento di inaugurazione vennero inserite alcune medaglie e monete dell’anno 1841”:
- un esemplare in bronzo della medaglia annuale in bronzo dell’XI anno di pontificato di papa Cappellari (Fig. 4) dedicata al restauro dell’acquedotto Claudio. Essa reca, al dritto, il busto del pontefice a destra con berrettino, mozzetta e stola circondato dalla legenda GREGORIVS XVI PONT MAX ANNO XI, mentre al rovescio compare il prospetto di Porta Maggiore dopo i restauri voluti dallo stesso Pontefice. In alto, corre la legenda DVCTVS AQVAE CLAVDIAE DILAPSIS PARTIBVS REFECTIS, mentre, in esergo, una seconda legenda CLAVDI MONVM VNDIQVE DETECTO / GEMINO PORTAE PRAENEST / ADSTRVCTO AEDIFICIO /ANNO MDCCCXLI / G G F si sviluppa in cinque righe. Era stata realizzata da Giuseppe Girometti, che era risultato vincitore, a pari merito insieme a Giuseppe Cerbara, del concorso bandito dall’allora direttore della zecca Francesco Mazio, dopo la morte di Tommaso Mercandetti, avvenuta l’11 maggio del 1821. Per tale motivo, dato che la scelta tra i due sarebbe stata difficilissima, fu presa una decisione per così dire salomonica: essi sarebbero stati entrambi incisori camerali, ma ad anni alterni;
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due esemplari, uno in argento e uno in bronzo, della medaglia della Lavanda emessa nel 1841 con il busto del pontefice a destra incorniciato dalla legenda GREGORIVS XVI PONT MAX A XI e, al rovescio, la consueta scena che caratterizza questo tipo di medaglia ovvero la scena di Gesù che lava i piedi a san Pietro, accompagnata dalla doppia legenda DOMINVS ET MAGISTER, in alto e EXEMPL. DEDI VOBIS, in esergo (Figg. 5-6). Il dritto fu realizzato da Giuseppe Girometti, mentre il rovescio da Giuseppe Cerbara;
- un esemplare della medaglia premio dell’Accademia di san Luca, realizzata da Giuseppe Girometti con il busto del Pontefice a destra con berrettino, mozzetta e stola e la legenda GREGORIVS XVI PONT MAX ANNO XI, al dritto, mentre, al rovescio, circondato dalla legenda INSIGN ET PONTIF ACADEMIA ROMANA ARTIF A DIVO LVCA = MERENTIBVS, campeggia la figura di san Luca che cavalca il toro (Fig. 7);
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una moneta da venti baiocchi recante, al dritto, il busto di Gregorio XVI a sinistra e la legenda GREGOR XVI PON M A XI e, al rovescio, la legenda 20 / BAIOCCHI / 1841 disposta su tre righe all’interno diuna corona(Fig. 8);
- una moneta da dieci baiocchi che raffiguralo stemma del Pontefice con la legenda GREGOR XVI PON M AN XI, al dritto, mentre il rovescio è occupato dalla legenda 10 / BAIOCCHI / 1841 entro una corona(Fig. 9);
- una moneta da cinque baiocchi con lo stemma del Pontefice e la legenda GREGOR XVI PON M AN XI al dritto, e, al rovescio, la legenda 5 / BAIOCCHI / 1841 entro una corona (Fig. 10);
- una moneta da mezzo baiocco con lo stemma del Pontefice e la legenda GREGORIVS XVI PONT MAX AXI al dritto, mentre la legenda del rovescio MEZZO / BAIOCCO / 1841 è inserita entro una corona (Fig. 11);
- un quattrino con lo stemma del Pontefice e la legenda GREGORIVS XVI PONT MAX AXI, al dritto, e la legenda QUATTRINO / 1841 entro una corona (Fig. 12).
Se le medaglie e le monete, specialmente quelle in bronzo, nonostante qualche traccia evidente di malachite dovuta alla permanenza delle stesse in ambiente umido, risultano ancora oggi in buono stato di conservazione, lo stesso non può dirsi per la pergamena (Fig. 13) la quale risulta per lo più illeggibile. Tuttavia il riconoscimento di alcune parole non del tutto sbiadite nella pergamena ha permesso il confronto con un documento conservato presso l’Accademia Nazionale dei Lincei e che faceva parte dell’archivio che il professore Cavalieri San Bertolo lasciò in eredità a quell’istituzione e che solo recentemente è stato inventariato. Il documento conservato ai Lincei è la Copia semplice dell’Istrumento d’inaugurazione del nuovo ponte gregoriano sul fiume Aniene presso la città di Subiaco, rogato in Subiaco il 15 settembre 1841. Esso, redatto dal notaio Renazzi, descrive la cerimonia di inaugurazione e cita tutte le personalità che vi presero parte: “[…] Felicemente regnando la Santità di Nostro Signore Papa Gregorio XVI, l’anno di nostra salute 1841 […] in seguito delle deliberazioni del Consiglio Straordinario in rappresentanza di quello della Provincia della Comarca di Roma, superiormente approvate, fu dato principio fin dall’anno 1838 ai lavori di apertura della nuova strada provinciale Sublacense in prosecuzione di quella costruita sotto il pontificato della gl.a Memoria di Papa Pio VI fino alla città di Subiaco, onde con tale prosecuzione mettere in utile comunicazione le popolazioni Sub’Appennine della Comarca, e della Provincia di Frosinone. Per l’avanzamento de’ lavori essendosi ora sul punto di por mano alla costruzione del grandioso ponte sul fiume Aniene presso il luogo ove sarà riedificata l’Icona di san Mauro in distanza dalla città di Subiaco circa 4/5 di miglio romano, si è stimato conveniente da Monsignor Presidente, e dal suo Consiglio Ammin.vo nel doversi procedere alla inaugurazione dell’Edifizio, di supplicare, nell’assenza dalla dominante della Santità di Nostro Signore, l’Emo e Rmo Sig. Cardinale Luigi Lambruschini Segretario di Stato a voler permettere, che il Ponte sumentovato esser possa inaugurato sotto la gloriosa denominazione di Ponte Gregoriano […]
Oggi che siamo alli quindici del mese di settembre dell’anno sud. 1841, lo stesso Monsignor Presidente assistito dai suddetti Segretario e Direttore, ed accompagnato da Monsignor D. Giovanni Calzolari Tancredi Vicario Generale della Abadia di Subiaco, dal Padre Priore del Ven.le Proto-monastero di S. Scolastica D. Michele Barnaba Riccardi in rappresentanza del Padre Abate D. Celestino Gonzaga, e dal Padre Priore del Monastero di S. Benedetto D. Arsenio Rosset-Cassel. dal signor Governatore Distrettuale Dottor Andrea Pasquali, e dalla Magistratura locale composta dai Signori Francesco Angelucci Gonfaloniere, Conte Pietro Lucidi, Gio. Francesco Baldovini, Vincenzo Preti, Giuseppe Leodori Anziani, Crispino De Sanctis, Segretario Com.le, i quali tutti sono stati pregati ad assistere come testimonj, il sullodato Monsignor Mangelli vestito degl’ abiti prelatizi si è recato nel luogo stabilito, e già predisposto per la costruzione del ponte. Quivi imponendo a questo la denominazione di ponte Gregoriano, essendo già stata premessa fin dal giorno trentuno dello scorso mese di agosto la benedizione dell’edificio per parte dell’autorità ecclesiastica col mezzo di Monsignor Antonio Antonucci cittadino sublacese vescovo di Monte Feltro ha lo stesso Monsignor Presidente colle proprie mani collocato nell’imposta destra dell’arcata la pietra inaugurale su cui è scolpito in numeri romani il millesimo dell’anno corrente. Presso la pietra suddetta entro un tubo di piombo insieme alla copia in pergamena del presente atto, si sono rinchiuse le seguenti medaglie in rame, ed in argento ciascuna cioè: 1a detta della Lavanda coll’effigie del Regnante Sommo Pontefice nel dritto e nel rovescio il Salvatore in atto di lavare i piedi al Principe degli Apostoli. 2a detta di S. Pietro coll’effigie di Nostro Signore nel dritto e il prospetto del Monumento di Claudio a Porta Maggiore nel rovescio. La 3a della Pontificia Accademia di S. Luca portante nel dritto la stessa effigie di Sua Santità, nel rovescio l’Evangelista S. Luca sopra un bue alato – tutte del presente anno del Pontificato di Sua Santità. Ed inoltre vi sono state poste varie monete in argento, ed in rame coniate nello stesso anno 1841, milleottocentoquarantuno […]”.
Di questo deposito di fondazione sarebbe rimasta solo una testimonianza scritta, custodita in un archivio, se un evento straordinario, seppur terribile, non avesse interessato proprio quel luogo. Durante la II Guerra mondiale, infatti, dal settembre 1943 al giugno 1944, la città di Subiaco subì l’occupazione delle truppe tedesche e lo stanziamento di un contingente militare della Repubblica di Salò. Per questo motivo, gli alleati bombardarono pesantemente la cittadina, distruggendo case, monasteri, chiese e i palazzi istituzionali. In questo clima di devastazione non fu risparmiato neppure il ponte di San Mauro sulla SS 411, che fu fatto brillare dai tedeschi, il 6 giugno del 1944, sul far del giorno, per ritardare gli alleati.
Il 25 gennaio 1945 alle 9.30 Pio XII ricevette in udienza, nella sala del tronetto, i membri della Deputazione Provinciale di Roma, i quali gli presentarono in dono un cofanetto in legno (Fig. 14) che custodiva al suo internoil tubodi piombo che nel 1841 era stato deposto nelle fondazioni del ponte e che a seguito dell’esplosione, le macerie avevano restituito. Il pontefice ringraziò i convenuti per quel dono così originale, pronunciando il seguente discorso: “Con particolare soddisfazione accogliamo l’omaggio che Ella, Signor Presidente, e voi, membri della ricostituita Deputazione Provinciale di Roma, avete voluto porgerCi, ed in pari tempo vi esprimiamo la Nostra gratitudine per il pregevole Cimelio del Nostro Predecessore Gregorio XVI, da voi con nobile sentimento rimessoCi. La vostra venuta Ci procura una opportuna occasione di manifestare a voi e alle popolazioni di tutta la Provincia, così duramente provata, quanto profondamente Ci sentiamo uniti a coloro che la più atroce di tutte le guerre ha gettato nel dolore e nella povertà, nell’angustia e nel pianto. Il Nostro pensiero Ci riconduce così a quella vigilia dello scatenamento dell’immane conflitto, quando, da un punto ridente del Lazio, che allora, nel lussureggiante splendore estivo, offriva l’immagine di una pace serena, lanciammo al mondo, ai Governanti ed ai popoli, il Nostro caldo e commosso ammonimento. Un presentimento angoscioso di una imminente sciagura Ci strappò dalle labbra il grido: «Niente è perduto con la pace: tutto può essere perduto con la guerra!» Chi sarebbe stato allora in grado di prevedere quale terribile conferma i fatti avrebbero dato a quel Nostro avvertimento sul suolo stesso della Nostra provincia natale? Allora la campagna romana, i Colli Albani, – i cui fertili campi Orazio contemplava l’inverno coprirsi di neve: nives Albanis illinetagris (Ep. I, 7, 10), ma che nell’autunno vedeva produrre abbondanti frutti e quel generoso vino da Plinio preferito allo stesso Falerno: austera vel Falerno utiliora (Nat. Hist. XXIII, 19, 35) -le fiorenti cittadine e i villaggi laziali, i luoghi che contornano la riva del mare, apparivano come soggiorni di indefesso e fecondo lavoro, di sano benessere, ove i bisognosi sapevano di poter trovare soccorso non meno dalla beneficienza pubblica che dai loro concittadini più agiati. Oggi pesa quasi dappertutto afflizione e miseria. Innumerevoli edifici giacciono in frantumi. La vostra visita ha avuto anche lo scopo di segnalarCi «le urgenti necessità che hanno le opere ospitaliere ed assistenziali della provincia per il loro efficace funzionamento». E questo non è che un aspetto della comune indigenza. Quante fabbriche ed officine sono andate distrutte o si trovano per altre cause condannate all’inazione!
Il progressivo deprezzamento della valuta crea sempre nuove classi di poveri vergognosi. La mancanza o la insufficienza dei più elementari presupposti per il ristabilimento di una vita economica normale intorpidisce la lena comune, diffonde un senso di indolente stanchezza e mette così in pericolo anche le necessarie condizioni di spirito per una pronta e ardimentosa opera di ricostruzione. Occorre veramente coraggio e fortezza d’animo, per adempiere ini tempi così oscuri l’ufficio che vi è stato commesso! Ma la vostra presenza qui è per Noi una prova manifesta della generosità e del fervore, con cui voi considerate le vostre funzioni, e della lodevole disposizione e prontezza a valervi, nella soluzione di tanti ardui problemi, della cooperazione di coloro che nell’adempimento dei doveri civili veggono al tempo stesso l’osservanza di quel precetto dell’amore, che è il segno caratteristico dei discepoli di Cristo (cfr. Io. 13, 35) e la misura, secondo la quale il Giudice supremo pronunzierà la sua sentenza circa il merito o il demerito della nostra vita terrena. Dio sia ringraziato! Anche in questi torbidi tempi si trovano in tutte le classi e in tutti i popoli anime grandi e nobili cuori che, pur in mezzo alla lotta per la propria vita, non dimenticano quelli che il flagello della guerra ha più aspramente colpiti. A loro Noi siamo debitori se Ci è stato possibile di alleviare molte amare sofferenze, molte tormentose miserie, e abbiamo ferma fiducia che la loro magnanima larghezza sarà anche nell’avvenire pronta al Nostro lato. Per quanto è da Noi, avremo cura di far partecipare ai soccorsi, che sono a Nostra disposizione, anche i poveri e i bisognosi della Provincia di Roma con imparziale benevolenza e paterno amore. Noi desideriamo e confidiamo che, in un tempo in cui la face della discordia e dell’odio ha cagionato tante sventure e tanti mali, la vostra egregia Deputazione saprà essere un magnifico esempio di solidarietà a servigio del vero bene di tutta la popolazione, per la salvezza di quanti son caduti nella estrema miseria, per incitamento agli animi generosi, per onore e merito vostro. Noi vorremmo perciò in qualche modo esprimere questo Nostro voto col presagio del mite Virgilio, elevato però a diverso e ben più alto significato sociale: Sit Latium, sint Albani, per saeculareges, – sit Romana potens itala virtute propago (Aen. XII, 826-827).
Con questa speranza invochiamo sui vostri gravi lavori gli aiuti e le grazie dell’Onnipotente, mentre impartiamo di cuore a tutta la diletta popolazione della Provincia di Roma e a voi stessi, che ne siete i solerti rappresentanti, la Nostra Apostolica Benedizione”.
In seguito, il ponte venne ricostruito, dapprima in ferro e poi nella forma attuale in pietra cardellino, negli anni 1945-1946. Il tubo di piombo con le medaglie e le monete e la pergamena sono invece custoditi nel Medagliere Vaticano, quale testimonianza di una storia inaspettata e di una tradizione millenaria.