In parte confluite in raccolte museali, varie monete ex collezione Este riappaiono di tanto in tanto sul mercato sfoggiando il loro pedigree
di Fiorenzo Catalli | Non si vede spesso ma, quando si vede, desta sempre l’attenzione dei collezionisti di monete: parliamo di un’aquiletta contromarcata su alcune antiche e spesso prestigiosissime monete. Un segno che, lungi dal deturpare o togliere valore a quegli esemplari, li rende riconoscibili per la loro nobile origine, la collezione di casa d’Este. Ma andiamo con ordine facendo un salto indietro di quasi quattro secoli.
Nel 1647 l’intervento del granduca Ferdinando II, e soprattutto quello del cardinale Leopoldo de’ Medici, consentirono l’acquisizione nel Medagliere mediceo di ben 252 monete in oro della collezione Este di Modena. I fatti risalgono agli anni in cui la morte senza eredi di Alfonso II (1559-1597) aveva obbligato gli Este a cedere Ferrara ai papi e a trasferire a Modena, il 30 gennaio 1598, la capitale e la corte.
Le difficoltà finanziarie che seguirono a causa della perdita di parte del territorio e delle sue risorse costrinsero gli Este a dismettere alcune residenze ducali fuori dello Stato e ad impegnare gioielli e monete della collezione di famiglia presso i banchieri veneziani.
Successore di Alfonso era stato, in realtà, nominato il cugino Cesare d’Este, figlio naturale di Alfonso d’Este, marchese di Montecchio, successione riconosciuta dall’imperatore Rodolfo II ma non dal papa Clemente VIII, che non perse l’occasione per far rientrare Ferrara, già feudo pontificio, tra i possedimenti della Santa Sede.
Tra gli oggetti partiti da Modena per Venezia, il 10 febbraio 1599 (cfr. A.S. Modena, Archivio Segreto Estense, Ambasciatori, Venezia b. 88), erano compresi diamanti, perle, argenteria varia e quattro “cassette” di monete d’oro, d’argento e di bronzo.
Erano prestanomi di Cesare d’Este i conti Bonifacio e Galeazzo Canossa, appartenenti ad una famiglia veronese che aveva già fornito servigi agli Este e ai Gonzaga, non solo nell’acquisto di antichità ma anche in occasione di precedenti pegni. Dopo la stipula del pegno presso il Monte di Pietà di Venezia la vicenda subì alcuni imprevisti. Soprattutto l’assassinio di Bonifacio Canossa, avvenuto a Verona l’8 giugno del 1600 concentrò nelle mani di Galeazzo la responsabilità del pegno cui seguì, di lì a poco, un sopralluogo a Venezia per verificare lo stato degli oggetti impegnati con la partecipazione dello stesso Galeazzo, dell’ambasciatore Alfonso Mella e di Federico Contarini, che quell’anno era il “depositario” in zecca.
La ricognizione mostrò i gravi danni che l’umidità dei magazzini aveva prodotto agli imballaggi e agli oggetti stessi. Le monete che si erano ossidate (evidentemente quelle d’argento e di bronzo) ed incollate tra di loro furono rimosse e riposte in sacchetti sigillati.
La successiva documentazione d’archivio attesta la volontà del Contarini di appropriarsi, contro il parere di Cesare d’Este, degli oggetti impegnati che almeno in parte erano pervenuti nella sua disponibilità. Finalmente, nel novembre del 1602, le monete d’oro furono riscattate e l’anno successivo fu la volta di altri oggetti, tra cui “due carra d’argenteria” che “i Veneziani non avevano troppa voglia di restituirla”. Alcuni anni dopo, nel 1614, le monete e i gioielli riscattati vennero nuovamente impegnati presso il Monte di Pietà di Firenze.
L’operazione, affidata a Manfredi Malaspina, ambasciatore fiorentino del duca di Modena, è documentata dal carteggio conservato nell’Archivio di Stato di Firenze (cfr. R. Fuda, Documenti relativi al prestito concesso dal Monte di Pietà di Firenze al Duca di Modena, in Si tiene pegno in Guardaroba. Monete d’oro con la contromarca di Casa d’Este nel Medagliere Mediceo, catalogo della mostra, Firenze 2014, pp. 20-57).
Oltre ai gioielli l’inventario registra un sacchetto contenente 710 “medaglie” d’oro per un totale di 14 libbre e nove once fiorentine, pari a 5008,17 grammi, stimate a peso d’oro per un totale di 1455 ducati. La documentazione d’archivio consente di verificare parziali riscatti degli oggetti impegnati: nel 1627 furono riscattati e riconsegnati i gioielli mentre le 710 medaglie e un vaso d’oro furono riscattate nel 1647, ma solo dopo l’intervento del granduca Ferdinando II e soprattutto del Cardinale Leopoldo che chiesero di consentire il confronto con le monete conservate nel medagliere mediceo e procedere ad eventuali cambi con esemplari già nella collezione medicea anche di minore conservazione ma compensati nel peso.
Le monete ritirate dagli Este, assieme agli altri esemplari in argento e in bronzo già impegnati a Venezia, furono probabilmente disperse negli anni successivi. Non siamo in grado di verificare i tempi e i modi di tale dispersione ma è documentato che nel 1663 alcuni esemplari con questa contromarca estense erano presenti nelle collezioni reali francesi così come altri esemplari con la stessa “aquiletta” facevano parte, nel 1661, nella collezione numismatica di Cristina di Svezia.
Altri esemplari con questa contromarca si conservano, inoltre, a Milano, nelle Civiche raccolte numismatiche (circa 360 monete in bronzo e in argento), a Modena nel Medagliere Estense (294 monete romane e romane provinciali), a Forli nella Collezione Piancastelli (alcuni esemplari) e a Berlino nel Münzkabinett (alcuni esemplari).
Ma diversi esemplari, sia in oro che in argento e in bronzo, tutti con la medesima contromarca a forma d’aquila sono comparsi, anche negli ultimi anni, in vendite all’asta (cfr. A. Pancotti e J. Grimaldi, La diaspora della collezione numismatica di Casa d’Este” in Si tiene pegno in Guardaroba. Monete d’oro con la contromarca di Casa d’Este nel Medagliere Mediceo, op.cit., pp. 347-358).
L’attribuzione della contromarca agli Este e non ai Gonzaga, aveva coinvolto gli studiosi della fine del Seicento e del Settecento (G. Foy-Vaillant, E. Spanheim, S. Liebe, S. Havercamp, G. Bencivenni e F. Neumann) tutti concordi nell’affermare che la stessa fosse da collegare con i Gonzaga di Mantova contro l’opinione di studiosi dell’Ottocento (S. Maffei, J. Eckhel e C. Cavedoni) che invece attribuivano la contromarca agli Este di Modena.
Il Poggi ha sostenuto con valide argomentazioni che la contromarca sia stata applicata sulle monete della collezione di Alfonso II d’Este negli ultimi decenni del XVI secolo, pochi anni prima della dispersione a seguito della sua morte e delle vicende del Ducato già narrate. La contromarca era certamente applicata a fronte di una piccola asportazione di metallo colando una micro goccia d’argento sulle monete in oro e in bronzo, d’oro su quelle in argento.
D’altra parte, dell’esistenza di una ricca collezione di monete d’oro di casa d’Este abbiamo la precisa testimonianza di Celio Calcagnini che nel 1517, su proposta niente meno che del cardinale Ippolito d’Este, aveva ricevuto dal Consiglio dei Savi l’incarico di storico ufficiale del Ducato di Ferrara e della famiglia.
Un esemplare provinciale romano ex collexione Este è questo proveniente dalla Tracia, un bronzo a nome di Caracalla (198-217) con l’inconfondibile aquiletta contromarcataIn tale veste, tra il 1538 e il 1541, il Calcagnini portò a termine l’opera Aureorum Numismatum Illustrissimi Herculis Secundi, Ducis Ferrariae Quarti, Elenchus in cui sono comprese 783 monete suddivise in 3 sezioni, le greche (Moneta Populorum, Urbium, Regum), le romane repubblicane ed imperiali e bizantine (Moneta Romanorum) e medievali (Moneta Medii Aevi). Il manoscritto è stato esaminato e discusso da G. Missere e F. Missere Fontana in Una silloge numismatica del XVI secolo: Celio Calcagnini e la raccolta estense pubblicato a Modena nel 1993.