di Guido Crapanzano | La realizzazione di una banconota può apparire cosa facile ai non addetti ai lavori ma, chi opera nel mondo delle carte valori, sa che questa è una tra le specializzazioni più complesse dell’intera produzione di serie. Nessun altro manufatto, infatti, viene realizzato con tanta accuratezza e inimitabile precisione. Inimitabile, perché proprio in ragione della complessità creativa, delle difficoltà di incisione delle lastre da stampa e della laboriosità dei sistemi tipografici, la sua falsificazione deve risultare, se non impossibile, almeno difficilissima. E quindi la banconota come il risultato di un insieme dove, dall’armonizzazione tra arte e tecnologia, si genera quella ineffabile proprietà emergente definita come “qualità”. E’ anche in virtù di questa qualità intrinseca che si verifica quella trasmutazione che nessun alchimista è mai riuscito a realizzare: la trasformazione della carta in oro.
Per intuire le difficoltà connesse alla creazione delle banconote basti pensare che, nella seconda metà dell’Ottocento non c’era in Italia una sola stamperia con incisori specializzati nella produzione di cartamoneta. Sapendo che l’Italia è sempre stata terra di grandi artisti, tra cui annoveriamo alcuni tra i più grandi incisori del Rinascimento, potremmo chiederci: come mai nel XIX secolo non esistevano nella Penisola incisori in grado di creare banconote?
La risposta è semplice: i grandi incisori italiani erano artisti e non artigiani. La differenza sostanziale è che l’artista realizza opere uniche, mentre gli artigiani sono specializzati nella produzione di oggetti in serie, uguali e persino identici gli uni agli altri. Uno degli attributi dell’opera d’arte è l’unicità, al punto che spesso nemmeno l’autore è in grado di creare due opere identiche. Con una lastra, si possono stampare alcune decine di migliaia di biglietti, ma per produrne un numero maggiore è necessario approntare ulteriori lastre che, per scoraggiare le contraffazioni, devono risultare identiche anche nei minimi dettagli.
Come se non bastasse, nella banconota la tecnologia deve fondersi con l’estetica. Oltre che raffinata, la banconota deve essere esteticamente piacevole, deve apparire bella, ove la bellezza svolge un ruolo non secondario. Il denaro, tradizionalmente considerato con valenza negativa, o addirittura come simbolo del male, in quanto punto di confluenza degli istinti più basi e volgari dell’animo umano, deve farsi perdonare. Soprattutto la banconota, priva di valore intrinseco, deve avere un aspetto accattivante, deve piacere, tentando per questa via una improbabile redenzione dal peccato. La bellezza, dunque, come necessario momento di riscatto.
La bellezza si manifestò palesemente nelle banconote nei primi anni del XX secolo, quando in tutta Europa circolavano splendidi biglietti in stile Liberty, dalle affascinanti emissioni della Banque de France alle banconote ungheresi disegnati da Mucha. Le prime banconote di alta qualità grafico-artistica, create e stampate in Italia, furono le famose 50 lire tipo Buoi, emesse nel 1915. Nel 1916 venne decisa l’emissione di un nuovo biglietto di Stato da 10 lire, in sostituzione del vecchio modello con l’effige di Vittorio Emanuele II, in circolazione da oltre trent’anni. Il direttore del Poligrafico, nell’intento di realizzare un biglietto di alto pregio e di tutta bellezza, fece creare numerosi progetti ad alcuni tra i più qualificati disegnatori. Ma l’impresa si rivelò ardua, sia per il limitato formato, stabilito in cm 10 x 6, sia per la difficoltà di tratteggiarvi raffigurazioni adeguate al raffinato stile dell’epoca.
Dopo una interminabile serie di selezioni, venne scelto il bozzetto elaborato dal maestro Giovanni Maria Mataloni, uno tra i più noti illustratori dell’epoca, che fu poi sottoposto a modifiche e successivi ritocchi che impegnarono l’autore per lungo tempo. Il capo incisore del Poligrafico, Alberto Repettati, fu incaricato di incidere le lastre da stampa, operazione che si protrasse molto oltre il previsto. Il campione definitivo venne finalmente alla luce nel 1920, mentre erano in corso grandi sconvolgimenti sociopolitici che si placarono solo alla fine del 1922, con l’avvento del fascismo e la nomina di Benito Mussolini a capo del Governo.
Il direttore del Poligrafico, quando già da due anni erano pronti i campioni del biglietto, pensò che fosse opportuno adattarlo al mutamento politico facendo aggiungere due fasci ai lati del riquadro bianco centrale. Poi, nella convinzione di trovare consenso e plauso, sottopose le nuove prove di stampa all’approvazione di Mussolini. Il duce, tuttavia, invece di approvarlo, lo bocciò, irrimediabilmente, rinviando al mittente il campione sotto cui aveva vergato di suo pugno queste parole: “E’ semplicemente orribile è super-balcanico. Mussolini”.
Per capire la valenza critica della frase del duce, occorre ricordare che tra i valori fondanti del fascismo c’erano il coraggio, la celebrazione dell’ardimento, della fermezza, del patriottismo, e di tutte le doti che esaltano il maschilismo. Pervaso dall’enfasi della virilità, il duce aveva scambiato le immagini di un agricoltore e un operaio, ingentilite dalla morbidezza dei tratti tipici dello stile Liberty, con una raffigurazione effeminata. Impressione rafforzata anche dalla raffigurazione dell’operaio con le natiche scoperte che, all’epoca, poteva apparire indecente.
Durante il fascismo, l’omosessualità era considerata una pratica perversa. Chi ne era sospettato veniva additato al pubblico disprezzo con pesanti nomignoli dialettali, mentre non esistevano termini moderati per definirla. Dall’esperienza cosmopolita della Prima guerra mondiale, era emerso che, in alcune popolazioni balcaniche, era diffusa la tendenza alla promiscuità sessuale. Così, l’aggettivo “balcanico” divenne un modo allusivo e “signorile” per indicare gli omosessuali.
Irrimediabilmente bocciato, il modello elaborato da Mataloni rimase inutilizzato negli archivi del Poligrafico per oltre vent’anni, sino a che, mentre l’Italia era sotto il Governo militare alleato, con D.M. del 23 novembre 1944 venne stabilita l’emissione di un nuovo biglietto di Stato da 10 lire. In ragione dell’urgenza, il Poligrafico pensò di utilizzare quanto già esistente, e ancora una volta, lo splendido biglietto di Mataloni fu adattato alla situazione politica in atto: al diritto la dizione REGNO D’ITALIA venne sostituita da ITALIA e l’immagine del re rimpiazzata da quella – meno compromettente – di Giove. Il discusso disegno del verso restò uguale, se non per il cambiamento delle date dei decreti. Ma la modifica sostanziale avvenne nel rovescio, passando dal colore al bianco e nero, ove la morbidezza delle sfumature del blue, veniva raffreddata dalla monotonia tonale del grigio.
Inoltre, nel progetto originale, il riquadro centrale doveva restare bianco per far intravedere il valore 10 in filigrana, ma nel 1944 non era facile fra produrre ingenti quantitativi di carta filigranata, e quindi il riquadro venne coperto con un fondino grigio.
Nel 1945, poco dopo la fine della guerra, i biglietti da 10 lire entrarono in circolazione ma, a causa della drammatica inflazione, il loro potere di acquisto si era enormemente ridotto, così come, a causa della mutazione cromatica, si era ridotto il fascino delle originali raffigurazioni create da Giovanni Maria Mataloni.