Inizia già nel XVI secolo la “passione dinastica” dei Savoia per monete e medaglie che culminerà nella Collezione reale e nel Corpus Nummorum Italicorum
di Antonio Castellani | Non tutti sanno che il duca Emanuele Filiberto di Savoia (1528-1580), in occasione della costruzione della cittadella di Vercelli, il 25 dicembre 1560, stabilì che sarebbero state di sua proprietà “tutte le trove che si faranno di medaglie d’oro e d’argento o d’altro metallo, come vasi di terra e marmi et ogni altra antiquaglia”.
Una pratica comune, fra principi e regnanti del tempo, ma non si creda che il duca – passato alla storia con l’appellativo di “Testa di ferro” – decise di far ciò solo per accaparrarsi tesori e antichità. Contemporaneamente, infatti, il duca ordinò che si iniziasse una sistematica raccolta di monete e di medaglie antiche.
Una collezione nata tra passione antiquaria e scopi pratici
L’idea venne poi ripresa da Carlo Emanuele III (1701-1773) con un obiettivo soprattutto pratico, e non tanto per spirito antiquariale, in modo che non ci fossero più dubbi circa i cambi e i rapporti tra le vecchie e le nuove monete.
Infatti, nella maggior parte dei casi la disparità dei giudizi sul valore effettivo delle monete dipendeva dal fatto che mancava, ai magistrati preposti al concambio, una conoscenza documentata della loro intrinseca bontà, non essendosi conservato un tipo sicuro – un “prototipo” – al quale paragonarle.
Si cominciarono così a raccogliere e a conservare non solo le monete, ma anche tutti i documenti ad esse relativi, che ne attestavano la bontà e il peso. Carlo Emanuele ordinò che da allora in poi, per ogni emissione di monete, una serie completa venisse consegnata al magistrato della Camera dei Conti.
L’incarico di curare questa raccolta fu affidato al cavalier Filippo Morozzo, allora “riformatore” nel Magistrato della riforma all’Università di Torino, poi promosso primo ministro e segretario di Stato per gli Affari interni il 25 settembre 1765.
Il Morozzo si servì come collaboratore del conte Filippo Risbaldo Orsini di Orbassano e dell’abate Francesco Ludovico Berta, bibliotecario dell’Università.
Tutti i tesorieri provinciali dovevano mandare a Torino tre esemplari di ogni moneta che veniva ritirata e al maestro di zecca venne vietato di fondere qualsiasi vecchia moneta prima che fosse stata esaminata dal Morozzo.
A caccia di rarità numismatiche sabaude nello Stato Pontificio
In un secondo tempo le ricerche furono estese anche fuori dei confini dello Stato e soprattutto a Roma, attraverso l’ambasciatore alla corte pontificia, il conte Gian Battista Balbis di Rivera. Proprio in quei giorni, a causa di una grave carestia, il governo pontificio aveva provveduto ad acquistare ingenti partite di grano. Per colmare il disavanzo procurato alle finanze si decise di prelevare un quantitativo di moneta dal tesoro accumulato a Castel Sant’Angelo da Sisto V, a partire dal 1586, costituito da antiche monete d’oro per un valore di 5 milioni e mezzo di scudi. Il 9 aprile 1764 se ne prelevarono per mezzo milione e due anni dopo altrettanti.
Il cardinale Giuseppe Maria Castelli, incaricato di presiedere l’operazione, interessato dall’ambasciatore, risparmiò dalla fusione – tra le monete estratte dal tesoro per essere fuse e trasformate in altrettanti nuovi zecchini – tutte quelle che interessavano i Savoia, 24 esemplari databili fra i periodi da Filiberto II a Carlo Emanuele II. Inviate a Torino, entrarono a far parte della raccolta reale e per esse vennero pagati al cardinale Castelli la cifra di 63 scudi e 93 baiocchi e mezzo.
La sfragistica e gli studi su monete e medaglie di Savoia
Alla morte di Carlo Emanuele III la collezione sabauda comprendeva, fra le altre, tutte le monete battute da questo sovrano e da Vittorio Amedeo I. La raccolta, assurta ad una vera e propria collezione, venne continuata e arricchita da Carlo Alberto (1831-1849), al quale si deve la pubblicazione della prima opera organica in due volumi sulle monete sabaude, dalle origini al suo regno, con tavole in cui ogni moneta viene descritta attraverso disegni. Lo stesso Carlo Alberto volle che venisse effettuata la raccolta di tutti i sigilli di Casa Savoia, pubblicati poi dal conte Luigi Cibrario e da Domenico Promis.
Un’altra impresa che venne promossa da Carlo Emanuele III fu quella ideata da Giovanni Battista Bogino: un “grande medagliere”, in cui vennero rappresentati mediante una serie di medaglie in bronzo e poi in argento tutti i principi e le principesse di Casa Savoia con emblemi allusivi alla loro vita. L’incisione dei punzoni venne affidata all’abilità di Lorenzo Lavy mentre le legende e gli emblemi allusivi furono curati dall’abate Berta, principale responsabile delle molte inesattezze storiche contenute soprattutto nella prima parte dell’opera, che comprende in tutto 77 pezzi.
Il XIX e il XX secolo: dalla Storia metallica… al Corpus…
Il medagliere venne continuato da Carlo Felice (1821-1831) e pubblicato in un volume nel 1828 da Gianfrancesco Galeani Napione con il titolo Storia metallica della Real Casa di Savoia. Venne poi completato sotto Vittorio Emanuele II (1861-1878) e Vittorio Emanuele III (1900-1946), del quale è ben nota la passione per la numismatica, la più grande passione della sua vita, concretizzatasi nella più grande raccolta privata al mondo di monete italiane medievali e moderne, oltre 100.000, donate al popolo italiano all’atto di partire per l’esilio, e nella pubblicazione dei venti volumi del Corpus Nummorum Italicorum.
Una passione antica, dunque, quella dei Savoia per la numismatica che ha visto protagonista anche il “re di maggio” Umberto II nella raccolta e pubblicazione delle medaglie della sua Casata anche se l’opera, che doveva essere di tre volumi, ma si interruppe dopo l’uscita del primo. E ancora oggi il principe Emanuele Filiberto – che già anni fa si è dichiarato appassionato collezionista di monete del suo casato – continua quella tradizione.