Una medaglia dedicata al mito di Didone e alla città di Cartagine avrebbe ispirato gli sceneggiatori del film Cabiria: ipotesi verosimile o speculazione?
di Giancarlo Alteri | L’amicizia fra artisti di settori diversi, come pure l’inimicizia tra artisti che invece operavano nello stesso settore, fu abbastanza frequente nel Rinascimento. Ma quello che legò il letterato Annibal Caro e l’incisore Alessandro Cesati fu un rapporto profondo; anzi, a detta di alcuni contemporanei un po’ maligni, sarebbe stato addirittura un rapporto “molto particolare”. Forse perché, sebbene l’uno fosse dedito alle lettere, l’altro ai coni, si trovarono, ad una certo punto della loro vita, ad abitare a Roma nello stesso stabile quello detto “del vescovo di Cervia”, nella zona dei Banchi; e l’assidua frequentazione cementò la loro amicizia, probabilmente un po’ troppo!
Già scrittore famoso, il Caro stava attendendo alla sua traduzione del poema di Virgilio l’Eneide, mentre l’incisore stava realizzando alcune tra le più belle medaglie del Cinquecento, tanto che, secondo Michelangelo, l’arte medaglistica ormai era destinata a scomparire, perché in questo settore nessuno avrebbe mai potuto più superare la maestria del Cesati.
Ma oltre all’amicizia, un’altra circostanza legava il Caro al Cesati: entrambi erano al servizio dei Farnese. Lo scultore apertamente, dal momento che lavorava saltuariamente nelle zecche di Parma e di Castro; lo scrittore in modo più discreto, tanto che negli ambienti della Curia era ritenuto una spia dei Farnese. Nulla di male in quel momento, perché allora si trovava sul trono di Pietro proprio un Farnese, Paolo III, che aveva investito il figlio Pier Luigi dei ducati di Castro e Ronciglione, come pure di quello di Parma e Piacenza.
Dal momento che, come abbiamo detto, entrambi gli artisti abitavano nel medesimo palazzo, non è improbabile che nelle uggiose sere d’inverno, il Caro leggesse all’amico incisore ampi brani dell’Eneide, che man mano veniva traducendo. D’altronde il Cesati era nativo di Cipro (perciò era soprannominato “il Grechetto”) e conosceva bene la lingua greca.
Altrettanto bene doveva conoscere sicuramente una delle tante leggende sulla figura di Didone, figlia del re Belo di Tiro, che aveva sposato, giovanissima, il ricco sacerdote Sicharbas (il Sicheo di Virgilio). Però il fratello di lei, Pigmalione, uccise Sicheo per impadronirsi delle sue sostanze e del potere, e costrinse Didone, che era stata appena proclamata regina alla morte del padre, a fuggire da Tiro, seguita soltanto da pochi fedeli, per lo più di nobile origine.
Approdata a Cipro, fece imbarcare ottanta fanciulle dell’isola, con le quali giunse sulla costa mediterranea dell’Africa, dove ottenne di poter comprare “tanta terra quanta ne potesse contenerne la pelle di un bue”. Tagliata la pelle in strisce sottilissime e legate queste ultime l’una all’altra, riuscì a circondare un terreno tale da costruirvi la città di Cartagine.
Secondo le leggende più antiche, poco dopo il re Iarba la chiese in sposa minacciando guerra in caso di rifiuto. I maggiorenti della nuova città imposero allora a Didone di accettare le seconde nozze; ma essa, fingendo di acconsentire, chiese tempo per placare l’anima del primo marito Sicharbas. Costruita quindi una pira, vi salì essa stessa e, invocato il nome del marito morto, si suicidò con una spada. Secondo la versione virgiliana, la regina si uccise perché abbandonata da Enea di cui si era innamorata quando l’eroe troiano era giunto naufrago a Cartagine.
Dovette sicuramente commuovere il Cesati, lontano dalla propria patria, la descrizione virgiliana di Didone che costruisce la nuova città; episodio, questo, reso magnificamente dai versi del Caro: il porto, la reggia, il tempio in cui sono illustrate le storie della guerra d’Ilio, che tanta nostalgia suscitano nel cuore del pio Enea, ricordandogli la patria distrutta. Soprattutto colpì il cuore dell’incisore la tragica figura della bella, nobile 3 sfortunata Didone, uno dei massimi personaggi della letteratura di ogni tempo.
Ed ecco allora l’incisore mettere mano al bulino e creare una medaglia in onore di questa donna, prima che regina, e della città che lei, dopo tante peripezie, aveva fondato.
La legenda sul dritto dichiara subito chi sia la persona raffigurata, ed è scritta in greco, lingua del Cesati. La regina vi è effigiata in tutta la sua bellezza, con i capelli acconciati alla maniera ellenistica. Chiaramente, il ritratto deriva dalle monete romane che ritraevano le imperatrici romane, dal momento che il Grechetto si dilettava di coniare monete “ad imitazione degli antichi”, cioè di riprodurre monete dell’Impero Romano, “per competere in bravura con gli anonimi incisori antichi” (si giustificava l’artista) o per rivenderle come autentiche ad ingenui collezionisti, come lo accusavano malignamente i suoi rivali.
Ma di questa medaglia è soprattutto il rovescio che sorprende. Esso ci mostra una veduta quasi assonometrica della città di Cartagine; una veduta naturalmente di fantasia, ma che ha molti punti di contatto con quella dell’Alma Roma su un’altra medaglia sempre del Cesati. Quest’ultima, con uno splendido panorama “a volo d’uccello” di Roma rinascimentale, venne realizzata con ben precisi scopi: prima di tutto, mostrare la magnificenza della Roma ricostruita ed abbellita da papa Paolo III (1534-1549) in vista dell’imminente Anno Santo del 1550, dopo le distruzioni subite durante il tragico Sacco del 1527; quindi, per dar prova dell’alto livello raggiunto dalla sua arte incisoria.
La medaglia con Cartagine si colloca nello stesso filone: alcuni edifici della città africana mostrano sorprendenti analogie con quelli della Città Eterna. Basti vedere, ad esempio, la colonna quasi all’estrema sinistra, che sembra quella di Traiano sulla medaglia Alma Roma oppure la cupola “a gradoni” del tempio a destra, identica a quella del Pantheon sulla stessa medaglia.
Secondo la maggior parte degli studiosi, la medaglia di Didone potrebbe esse stata realizzata tra l’autunno del 1547 ed il 1550. Del resto, nel settembre del 1547 il Caro era tornato a Roma, da dove non si allontanerà più; soltanto nel 1563, Caro lascerà l’Urbe per trasferirsi in un podere vicino Frascati, dove morirà nel 1566, a 59 anni. Ma in una sua lettera dell’8 dicembre 1550 egli parla di una “medaglia di Didone”. Alcuni studiosi, invece, non sono d’accordo su questa possibile datazione e ritengono più attendibile la notizia dell’edizione valenciana del 1553 di IX Tajeros sobra la moneda di Antonio Augustin, dove si parla di una “medaglia di Didone” fatta “recentemente”.
Una curiosità: nella seconda decade del XX secolo, qualche numismatico non esitò a sostenere che lo scenografo del film Cabiria di Giovanni Pastrone, realizzato negli anni 1913-1914 tenendo presente i testi Cartagine in fiamme di Emilio Salgari e Salammbô, di Gustve Flaubert, si era ispirato alla medaglia del Cesati per ricostruire negli studi cimetografici le scenografie della città di Cartagine!
Dunque, a questa medaglia si deve il successo del più lungo film italiano prodotto in quei tempi? Non, quindi, alla trama, alla bravura degli attori, alla partecipazione, come aiuto sceneggiatore di Gabriele D’Annunzio il quale, oltre ad ideare il nome Cabiria (“nata dal fuoco”) e a volerlo come titolo della pellicola, inventò anche i nomi di molti altri personaggi e compose le auliche didascalie letterarie? Indubbiamente, quella di Didone/Cartagine è una bella medaglia; indubbiamente il Cesati è stato un grande incisore; ma certe affermazioni, talvolta, appaiono davvero esagerate se non, addirittura, ridicole.