A metà XVI secolo Roma fu colpita dall’ennesima carestia e il papa dovette intervenire, non senza farsi (con una moneta) anche un po’ di propaganda
di Roberto Ganganelli | Correva l’anno 440 avanti Cristo quando, narrano le fonti, Roma venne investita dalla prima, grande carestia della sua storia. Da quel momento, i fenomeni di denutrizione di massa, sovente accompagnati da massicce pestilenze, avrebbero ciclicamente segnato la storia dell’Urbe – come di tutte le altre grandi città e di vaste regioni del mondo occidentale – decimando la popolazione e determinando, al tempo stesso, pesanti fenomeni di involuzione demografica, civile e culturale.
Invasioni, guerre, clima e arretratezza all’origine delle carestie
Nel V secolo dopo Cristo, la calata dei Visigoti e la caduta di Roma per opera di Alarico fecero ripiombare nuovamente la popolazione nella fame e nell’inedia e in seguito, a metà del Trecento, quella che oggi chiamiamo “la piccola era glaciale” sconvolse l’intera Europa e non risparmiò neppure la lontana Cina.
Tra le principali cause delle grandi carestie, almeno fino alla diffusione della rotazione delle colture introdotto in Europa nel Basso Medioevo, vi fu la prassi di coltivare per lunghissimi periodi i campi a cereali, impoverendo progressivamente il terreno e, di conseguenza, rendendo via via meno nutriente e forte il prodotto della terra. Allo sfruttamento delle campagne si aggiunsero, di caso in caso, inverni particolarmente rigidi – come quello del 974-975 che provocò la morte per fame di un terzo della popolazione franca e di circa metà degli abitanti di Parigi – ma anche guerre, assedi e passaggi di eserciti.
Alla fine del Cinquecento, Roma venne colpita dall’ennesima grave penuria di derrate alimentari e la situazione si rivelò talmente difficile da gestire da richiedere il concorso di tutti gli uomini di buona volontà, sia laici che ecclesiastici tanto che, a seguito dei servizi resi sia sotto il profilo assistenziale e caritativo, papa Gregorio XIV elevò la Congregazione di san Camillo de Lellis a Ordine dei chierici regolari ministri degli infermi.
Gli stessi papi, in occasione delle carestie che colpirono Roma, si impegnarono a più riprese – ricorrendo sia ai fondi della Camera Apostolica, sia al proprio patrimonio privato che al Tesoro di San Pietro – a far fronte con massicci acquisti di grano e cibarie alla fame che rischiava di portare al collasso – e alla ribellione – la popolazione della Città Eterna.
La situazione a Roma a metà del XVI secolo
Tra loro vi fu Giulio III (Giovanni Maria Ciocchi Del Monte, 1550-1555) il quale si trovò a fronteggiare, già nel primo anno del suo pontificato, l’ennesima penuria di cibo che rischiava di mettere in ginocchio la capitale della Cristianità. Papa Giulio III seppe essere, in quel frangente, un attivo e capace amministratore della cosa pubblica e provvide a far acquistare grandi quantità di granaglie da destinare alla popolazione, peraltro reduce dalle cerimonie del Giubileo che, se da un lato avevano portato in città pellegrini e denaro, dall’altro avevano – come sempre – alterato e messo a repentaglio il sonnolento equilibrio dell’Urbe.
E come ogni pontefice amante delle arti e della storia, consapevole del potere propagandistico della moneta, papa Ciocchi Del Monte non mancò di celebrare i propri meriti anche con un raro grosso in argento (mm 24, g 1,61, Muntoni 33) che, allo stemma con chiavi e tiara posto al dritto contrappone, al rovescio, un’ara ornata di patera e di lituo e la legenda PROVIDENTIA.
Quando un romano pontefice ripristina simboli antichi
Soggetti derivati dalla monetazione romana, l’ara (altare) e gli strumenti sacerdotali furono introdotti nelle emissioni repubblicane e riproposti su numerosissime monete imperiali. La patera (una sorta di tazza senza manico), ad esempio, appare come attributo di Vesta, della Salus, della Concordia e di altre personificazioni. Il lituo, invece, simbolo di regalità (da esso deriva il pastorale dei nostri vescovi) era usato dagli auguri per tracciare i confini del templum, la regione di cielo da scrutare per trarne auspici e compare, a sua volta, su varie emissioni.
L’ara effigiata sul grosso di Giulio III, tuttavia, appare vuota, inutilizzata, riconoscibile quale oggetto di culto solo per gli strumenti che ne decorano i lati. Per di più, è sormontata in bella evidenza dal nome della Provvidenza, quasi a voler comunicare, Urbi et Orbi, che solo l’aiuto di Dio e la lungimiranza del suo vicario terreno – e non certo la superstizione o inutili riti pagani – avevano salvato Roma dalle insidie dell’ennesima, tremenda carestia.