Con un’osella la Serenissima celebra la decisione di chiudere in città tutte le sale da gioco, ad iniziare dal Ridotto reso celebre dal Goldoni
di Antonio Castellani | La Venezia barocca e settecentesca, quella di Giacomo Casanova e di Carlo Goldoni, nell’immaginario collettivo è città gaudente e spensierata, nella quale feste da ballo magnifiche, banchetti e vizi d’ogni genere sono la normalità sia per i cittadini che per i tanti stranieri che giungono in Laguna, attratti dal miraggio della città costruita sull’acqua.
Il Ridotto, antenato dei casinò reso celebre da Goldoni
Nella Venezia settecentesca si giocava e si rischiava di dissestare in brevissimo tempo cospicui patrimoni, anche migliaia di ducati ogni sera. E il più rinomato tra i luoghi deputati al gioco era il Ridotto, citato da Goldoni nelle sue Memorie ma, nonostante la ben nota pericolosità del gioco, la malafede dei bari e i trucchi delle bische, si giocava anche nei caffè, negli alberghi, nei casini di campagna, nelle ville e nei salotti e le dame giocavano – e perdevano – in misura maggiore dei rispettivi mariti.
Il “Ridotto”, citato dal Goldoni, era stato aperto nel 1638 dal patrizio Marco Dandolo nel suo palazzo a San Moisé, con regolare licenza governativa, ed era un antesignano dei moderni casinò: oltre alle sale da gioco vere e proprie, aveva due “sale da rinfresco”, una per il caffè, the, cioccolato, l’altra per vino, formaggio, salumi e frutta.
Un’annotazione degli Inquisitori di Stato del 16 marzo 1747 riportava che “nel casino in salizzada a San Moisé si tripudia di disordini, vi va ogni sorta di persone, huomini e donne, in fino sacerdoti […] si fa bottega di caffè e si gioca ogni sorta di carte; di notte vi va ogni sorta di vagabondi, e infino meretricie delle case pubbliche”.
Carte e dadi “al rogo” sull’osella del 1775
Così, nel 1774 le autorità decisero di chiudere il “Ridotto” (pur non estirpando certo da Venezia il vizio del gioco) e diedero solennità a questa decisione coniando sull’argomento l’osella del 1775 (che qui vediamo in argento, mm 35 per g 9,8 circa) sul cui dritto il genio alato del Bene, illuminato dall’alto, incendia un cumulo di maschere, carte da gioco e dadi.
“Risplende per l’opera compiuta” (IN OPERE FVLGET) si legge attorno, a celebrazione della decisione che i “correttori” in carica portarono in Maggior Consiglio dove fu approvata con 720 voti favorevoli e appena 43 contrari, riportando almeno formalmente la Serenissima all’antica severità di costumi. E il doge Alvise IV Mocenigo (1763-1779) non si lasciò sfuggire la ghiotta occasione numismatica per celebrarsi come “moralizzatore” dei costumi veneziani.
Il primo banco, fra le colonne in Piazzetta
In origine, infatti, a Venezia il gioco d’azzardo era severamente vietato, con una sola eccezione. Tradizione vuole che due colonne di granito portate dalla Sicilia dal doge Domenego Michiel nel 1127, furono abbandonate appena sbarcate perché troppo grandi per abbellire la basilica di San Marco. Nel 1176, l’architetto Nicolò Barattiere si offrì di erigerle sul luogo del loro sbarco, l’attuale Piazzetta; l’operazione riuscì con successo e Barattiere, come compenso, chiese il privilegio per sé e di suoi eredi, di tener banco (un banco da gioco) per i veneziani nello spazio fra le due colonne.
Così, in tre secoli e mezzo di concessione anni i Barattiere accumularono di una ricchezza prodigiosa e solo nel 1529 il doge Andrea Gritti tentò di limitare la portata del danno sociale, cercando di rendere le due colonne il luogo meno benaugurante possibile, e cominciando a far eseguire proprio fra esse le condanne a morte. Ma il vizio del gioco si era ormai radicato e Venezia non poteva più farne a meno…